martedì 28 aprile 2015

Piccola storia delle Esposizioni Universali



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

A pochi giorni dall’apertura dell’EXPO a Milano, questo articolo pubblicato da la Repubblica il 27 aprile 2015 aiuta a capire che cosa sono state le Esposizioni Universali nel passato e quali innovazioni ci hanno lasciato. Leggetelo, perché è molto interessante per la storia che studieremo l’anno prossimo; anzi, fate un piccolo esercizio: informatevi per conto vostro su chi o che cosa sono tutte le persone o le cose che vengono nominate nell’articolo e non conoscete. Ciao ciao….

Pneumatici, ketchup e macchine da cucire così l'eredità dell'Expo ci ha cambiato la vita
di Marino Niola

L'EXPO è la civiltà che diventa fiera di se stessa. La vetrina in cui storicamente sono state esposte per la prima volta le invenzioni che hanno cambiato la nostra vita. È così dalla prima Great Exhibition, quella di Londra del 1851, quando nell'enorme Crystal Palace, costruito per l'occasione a Hyde Park, vengono esposti ben centomila manufatti per celebrare la religione del progresso. Fra questi il caucciù vulcanizzato, ideato da Charles Goodyear, da cui nasceranno i moderni pneumatici. E il cannone in acciaio fuso, vanto delle officine Krupp, che raddoppiando la gittata dell'arma di fatto rivoluziona la balistica bellica. Il numero di merci è tale da ubriacare visitatori eccellenti come Charles Dickens, che lamenta l'eccesso di cose da vedere.
E se Londra celebra la potenza dell'industria, la seconda edizione che si tiene a Parigi nel 1855, allarga il campo agli oggetti di uso comune. Quelli che rivoluzionano le abitudini quotidiane delle persone. Il primo tagliaerba della storia. La gloriosa macchina da cucire Singer, che trasforma ogni casa in un'officina di virtù domestiche. La prima lavatrice meccanica. Il primo veicolo semovente, prototipo dell'automobile a petrolio. E, per la gioia delle bambine, la prima bambola parlante. Da allora Parigi diventa la capitale morale delle esposizioni universali, con cinque edizioni e cento milioni di visitatori. Per quella del 1867 vengono introdotti i padiglioni, che da allora diventeranno la cellula di tutte le manifestazioni espositive. E per mostrare ai 15 milioni di visitatori gli imponenti edifici affacciati sulla Senna viene inaugurato il primo bateau-mouche. Vanto di quella manifestazione sono lo scafandro da palombaro, l'ascensore, la macchina per produrre bevande gassate. E il cemento armato. Ma oltreatlantico non stanno certo a guardare. A Philadelphia nel 1876 Alexander Graham Bell presenta il telefono e Thomas Alva Edison il telegrafo. Inaugurando di fatto l'era delle comunicazioni di massa. Con il contributo della Remington, che espone la prima macchina da scrivere. Ma mette a segno un colpo decisivo anche la Heinz, che stupisce tutti con il ketchup, destinato a diventare il simbolo planetario del fast food.
E la serie continua con altre due esposizioni parigine che lasceranno un segno indelebile nell'immaginario mondiale. Quella del 1889, che celebra il centenario della Rivoluzione e regala al mondo un monumento alla modernità come la Tour Eiffel. Nata come struttura provvisoria e diventata invece il simbolo della città. Che nell'Expo 1900 si guadagna l'appellativo di Ville Lumière. Lumière proprio come i fratelli Auguste e Louis, che in quella stessa edizione stupiscono il mondo con il cinema. La scatola magica che da allora diventa l'officina mitologica della contemporaneità. Ma le grandi esposizioni innovano anche l'arte e l'intrattenimento di massa. Nel 1933 a Chicago il Belgio presenta il primo parco dei divertimenti, cui si ispirerà Walt Disney per Disneyland. E a Parigi nel 1937 Pablo Picasso dipinge Guernica per il padiglione spagnolo.
Si può dire che ogni edizione rispecchia il profilo complessivo di un'epoca e annuncia quella successiva. Quelle tra Otto e Novecento celebrano il culto della produzione. Dell'ingegno al servizio dello sviluppo. Riflettendo un'idea prometeica della storia e del dominio dell'uomo sulla natura. Mentre con la seconda metà del Novecento le Expo cominciano a cambiare filosofia. E da vetrine di invenzioni e di oggetti si trasformano in occasioni di riflessione sulle urgenze del pianeta, sulla sostenibilità e sull'equilibrio con il vivente. A fare da snodo è Bruxelles 1958 con il suo Atomium, dove l'Urss espone lo Sputnik. E Osaka 1970 dove accanto al primo treno ad alta velocità, un bolide da 500 Km orari, debutta il telefono cellulare.
Ma è con il terzo millennio che si volta decisamente pagina. L'edizione di Saragozza 2008 è dedicata all'acqua e alle fonti rinnovabili. Shangai 2010 esplora il futuro della vita urbana con lo slogan "Better city, better life". Città migliore, vita migliore. E l'Expo 2012 di Yeosu in Corea, si focalizza sulla salvaguardia dell'ambiente marino e costiero. Anche se il titolo più poetico è quello dell'Expo giapponese del 2005 ad Aichi "La saggezza della natura". Profondo ed enigmatico come un haiku. E adesso è il turno di Milano che si è data una mission epocale come "Nutrire il pianeta. Energia per la vita". Come dire che l'alimentazione e la salute, degli individui e dell'ambiente, sono beni comuni. E che il cibo è vita e non solo consumo. Prove generali di futuro sostenibile.

lunedì 27 aprile 2015

Il terremoto in Nepal



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

Leggete questi 2 articoli: l’anno prossimo parleremo delle cause dei terremoti, quindi sarete facilitati se avrete già letto questi 2 articoli (in particolare il secondo).

CHE COSA È SUCCESSO:

Terremoto sul tetto del mondo
più di mille morti* in Nepal
Una valanga fa strage di scalatori
di Guna Raj Luitel

KATMANDU - Palazzine di sette piani attorno alla mia casa sono crollate sotto i miei occhi. Ieri c'erano, oggi sono scomparse, assieme alle famiglie che incrociavo ogni giorno. Oltre mille sono i morti delle cifre ufficiali, centinaia i feriti. Nella capitale alcune tra le piazze e le strade storiche attorno all'antico Palazzo Reale, patrimonio dell'Unesco, come Durbar square, sono deturpate o ridotte ad ammassi di mattoni e legni intarsiati.
Anche la cima dell'Everest si è mossa sulla spinta di una scossa pari al 7,9 della scala Richter, lasciando cadere a precipizio dal Monte Pumori distante appena 8 km una valanga che ha travolto e ucciso almeno 18 stranieri che si apprestavano a scalare o scendevano dalla vetta del mondo, proprio all'altezza di uno dei campi base. Poco o niente ancora si sa invece dei villaggi attorno all'epicentro tra i distretti di Lamjung e Gorkha, con interi villaggi rasi al suolo e le comunicazioni interrotte. Le scosse sono giunte fino al nord est dell'India, con almeno 20 morti, in Pakistan, in Bhutan e in Cina dove pure ci sono state vittime.
È stato un cataclisma con rari precedenti sul tetto del mondo: l'ultimo risale a 82 anni fa. E pensare che appena una settimana fa cinquanta sismologi di tutto il mondo proprio a Katmandu avevano dato l'allarme per "l'incubo in arrivo". Oggi un calcolo dettagliato dei danni e della perdita di vite è difficile, come l'opera di soccorso in città e nei piccoli centri delle regioni montagnose, dove piove spesso, il cielo è plumbeo e la notte scende subito. Le scosse sono continuate, al ritmo di mezz'ora l'una dall'altra. E la gente in preda al panico evitava di rientrare nelle case rimaste in piedi. Quando si riprenderanno gli scavi, e arriveranno le prime notizie dall'epicentro del sisma, la cifra salirà, e sarà chiara l'immensità dello sforzo che aspetta i soccorritori e la popolazione intera, già provata da condizioni economiche e di vita dure se non primitive nelle aree rurali colpite. «Aiutateci, non possiamo farcela da soli», è stato l'appello lanciato al mondo dal governo del Nepal, fino a ieri alle prese con le liti sulla nuova Costituzione post-monarchia e ora travolto da un disastro immane.
Qui attorno al mio quartiere e ovunque a Katmandu è buio pesto, le linee del telefono e Internet sono disturbate o interrotte, così le famiglie e gli stessi gruppi di soccorso non possono comunicare. Dappertutto si vede gente piangere. Gruppi di bambini da soli o con qualche adulto cercano i genitori attorno ai palazzi crollati. Non esiste un servizio di protezione civile, e tutti si organizzano come possono, scavando a mano, o con l'aiuto dell'esercito che fa del suo meglio. Le strade sono interrotte e le emergenze ovunque, gli ospedali come il Norvic sono colmi di morti e di feriti, spesso lasciati fuori in attesa di un medico, un infermiere, o uno spazio in corsia. Ovunque in città si sentono i lamenti delle persone rimaste intrappolate, le grida sembrano aumentare man mano che il buio si avvicina e aumenta il silenzio attorno. Le macchine e le moto non possono andare in strada per via delle enormi crepe e anche i soccorsi sono organizzati tra vicini.
A Lalitpur i giardini di Patan Durbar, che erano circondati da antichi templi oggi distrutti, sono trasformati in campo per gli sfollati. La gente resta all'aperto nei rari slarghi tra i palazzi, condividendo il cibo, in una città congestionata dalle costruzioni: sono rimaste in piedi solo le nuove e le più fortunate. Sono quasi rasi al suolo i monumenti orgoglio del Paese e patrimonio dell'umanità, le piazze storiche come Durbar e l'area del tempio di Shiva a Pashupati (che però è quasi intatto). La residenza di tante dinastie di sovranidèi è deturpata da crepe profonde e il muro di cinta della caserma delle famose guardie reali è crollato lasciando scoperto un fianco, ora protetto dai cavalli di frisia.
Ma la tragedia umana più toccante è stato il collasso della celebre torre di Dharahara, la più alta, con i suoi nove piani costruiti nel 19esimo secolo, dai quali si godeva la vista dell'intero centro storico. Decine di turisti e locali, forse una cinquantina, sono rimasti intrappolati dentro. Gruppi di volontari e soldati hanno estratto i primi corpi, ma i mezzi sono scarsi e si procede lenti. Si sa solo che in mattinata erano stati venduti quasi 200 biglietti d'ingresso, ma è difficile stabilire quanti si trovavano all'interno al momento del crollo.
Se a Katmandu la violenza delle scosse è stata grande, ancora più forte la terra ha tremato attorno all'epicentro, dal quale giungono solo voci di interi villaggi distrutti come Manglung. «Metà degli abitanti sono scomparsi o morti », ha detto Vim Tamang, uno dei sopravvissuti che vive all'aperto per paura delle nuove scosse. Ma oltre al Nepal ha tremato l'intero nord est dell'India, compresa la capitale Delhi, il Bengala, l'Uttar Pradesh, il Bihar, dove ci sono stati almeno 20 morti, la Cina.
In Nepal sono rimasti pesantemente colpiti 35 dei 75 distretti per lo spostamento della massa himalayana che ha trovato sfogo a soli dieci chilometri sotto terra, così che l'effetto secondo gli scienziati è stato ancora più diffuso e violento in superficie. Poiché mancavano cinque minuti a mezzogiorno ed era sabato, pochi camminavano per strada nei quartieri di Katmandu dove sono avvenuti gran parte dei crolli. Fosse successo di notte sarebbe stata un'ecatombe.
Gianni Ara è un tour operator italiano che vive in Nepal da venti anni. «Ero sul terrazzo di casa – racconta - quando mi sono sentito spostare violentemente e ho fatto appena in tempo ad afferrare la ringhiera perché non mi tenevo più in piedi. Allora ho guardato fuori e la gente scappava in basso alla ricerca di rifugio, ma non ci sono molti luoghi aperti. Allora ho preso la moto e cambiando direzione per le strade bloccate dai crolli sono arrivato a Durbar square. La desolazione di quel posto meraviglioso mi ha scioccato, quasi metà della mia vita l'ho passata camminando tra questi palazzi e templi che ora sembrano rovine di guerra».
( testo raccolto da Raimondo Bultrini)

* oggi, 30 aprile, i morti accertati sono 8.320

Pubblicato da la Repubblica il 26 aprile 2015










PERCHÉ È SUCCESSO:

Stritolato tra India ed Eurasia
così il Nepal cede 4 centimetri l'anno
di Elena Dusi


NEL "gran premio" della tettonica terrestre, la placca indiana è fra le più veloci. Ogni anno la sua massa si sposta verso Nord di quattro centimetri e mezzo. Un'enormità rispetto a ciò che definiamo "tempi geologici", soprattutto se si pensa che sulla sua strada trova un blocco di due continenti come l'Eurasia. Non è un caso che questo scontro fra titani abbia generato la catena montuosa più alta della Terra. E nemmeno che qui si sia appena scatenato un terremoto di magnitudo 7,9, sentito da 205 milioni di persone fino a mille chilometri da distanza. Fino a ieri sera le scosse di assestamento superiori alla magnitudo 2,5 erano state una cinquantina, con la più forte di 6,6.
Esattamente fra l'incudine e il martello, fra la placca indiana che preme verso nord con un fronte immenso (quasi mille chilometri) e quella euroasiatica che le oppone resistenza, si trova il Nepal. L'epicentro è stato 80 chilometri a Nord-ovest dalla capitale Katmandu, in una valle dove quasi cinque milioni di persone si sono concentrate in case costruite di fretta dopo la fine della guerra civile, 10 anni fa. Secondo l'associazione Geohazard International, due terzi degli edifici in Nepal non rispettano i criteri di sicurezza antisismica. Mettendo insieme i dati sulla forza del terremoto, la popolazione coinvolta e la solidità delle abitazioni, l'United States Geological Survey ha stimato che le vittime del sisma di ieri raggiungeranno le 10 mila con una probabilità del 33% e le 100mila con una probabilità del 32%.
Un terremoto forte in quella zona in realtà non stupisce nessuno. Nel 1505 il re del Nepal morì proprio in un sisma che piagò la regione con tre anni di scosse di assestamento. Si stima che intorno all'Himalaya la terra tremi in modo disastroso ogni 75-80 anni. E l'ultimo grande terremoto colpì a pochi chilometri dall'Everest proprio nel 1934. La terra allora si squarciò per 150 chilometri e le vittime furono più di 10mila. Puntuali, ieri, i sismografi sono tornati a scuotersi nelle stazioni geologiche installate in Nepal. «Molti apparecchi sono andati in saturazione », spiega Franco Pettenati, ricercatore dell'Istituto nazionale di oceanografia e geofisica sperimentale di Trieste.
Ha invece resistito la stazione sismica dell'Everest, che dall'anno scorso registra i movimenti della Terra a 5.050 metri di altezza, nell'osservatorio Piramide del Cnr. «La scossa si è verificata sulla grande linea tettonica chiamata Main Himalayan Thrust», spiega Pettenati. «Qui avviene la subduzione della placca indiana, che scivola al di sotto della placca euroasiatica. Nel punto in cui quattro faglie accavallate l'una sull'altra si incontrano, a circa 12 chilometri di profondità, è avvenuta la rottura e si è scatenato il sisma. Sulla stessa linea tettonica in tre ore ci sono state fino a 13 repliche con magnitudo stabile intorno a 5. Segno che il movimento è ancora in atto e la Terra sta scaricando la sua energia».
Il sismografo della Piramide italiana è stato installato nel 2014 per monitorare una delle aree sismiche più turbolente. «L'Himalaya — spiega Pettenati — è una catena giovane. Si è formata 55 milioni di anni fa e la sua geodinamica resta una delle più attive della Terra. Gli spostamenti orizzontali delle placche superano i 4 centimetri all'anno, mentre sulle Alpi orientali registriamo un paio di millimetri e in Sudamerica 1,2 centimetri». A battere in velocità la placca indiana è solo quella del Pacifico, che si immerge sotto a quella nordamericana al ritmo di 8 centimetri all'anno. Qui nel 2011 terremoto e tsunami misero in ginocchio il Giappone. In Cile nel 1960 avvenne il terremoto più forte fra quelli mai registrati, con magnitudo 9,5. In media ogni anno nel mondo si verificano 15 sismi superiori a 7. In Nepal, dove la terra ha tremato relativamente poco per 80 anni pur continuando a spostarsi al ritmo di 4,5 centimetri l'anno, si era accumulata una tensione capace di spostare i fronti delle placche fino a 10 metri.

 Pubblicato da la Repubblica il 26 aprile 2015


venerdì 17 aprile 2015

Generazione Z: vi riconoscete?



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

Generazione Z
di Maria Novella De Luca


Li hanno chiamati "Zeta", in mancanza di meglio. Camaleontici, inafferrabili, social, abitano l'universo dei videogiochi di "Minecraft", adorano gli Youtubers e gran parte della loro vita è scandita dalla "i", minuscola, di iPod, iPad, iPhone. Velocissimi, esperti, incredibili tecno-navigatori sono i nuovi bambini e i nuovi teenager della "Generazione Z". Fratelli dei "Millennials", primogeniti della "Generazione X", nipoti dei "Baby Boomers", sono nati quando il mondo era già un'unica connessione, e le loro ecografie prenatali filmate in 3D. I più vecchi, venuti al mondo nel 2000, hanno 15 anni, i più giovani sono cresciuti nel mix multietnico dell'Italia globale. Per battezzarli, negli States, "Usa Today" aveva lanciato nel 2012 un gigantesco sondaggio. "Wii-Gen", "i-Gen", "Post-Gen", erano state le risposte, nessuna efficace però. Poi è arrivata la definizione: "Generazione Z", firmata dal sociologo Neil Howe, già scopritore insieme a William Strauss dei "Millennials". Zeta, come la fine di un ciclo, diviso tra il prima e il dopo l'11 settembre. Come Oskar, il ragazzino di 9 anni che attende invano il padre sepolto nelle Torri Gemelle, protagonista dello struggente romanzo di Jonathan Safran Foer, "Molto forte, incredibilmente vicino".
L'ultima lettera dell'alfabeto, dunque, per descrivere ragazzini nati negli anni della grande crisi, incastrati nella fine delle certezze occidentali, e assai più poveri dei loro fratelli maggiori. Ipotecati da un debito di migliaia di euro sulle loro teste, i primi per cui la vita digitale non è diversa da quella reale, autonomi, ecologisti, spesso figli unici, abilissimi nell'imparare così come nel bruciare nuove tecnologie, ma ben coscienti già dall'infanzia di doversela cavare da soli. Dietro ci sono famiglie impoverite, reti di welfare disintegrate e la grande disillusione dei trentenni senza lavoro. Con tutte le incognite che ne conseguono, così sottolineava qualche giorno fa il «New York Times», in un preoccupato editoriale dal titolo: «Cercando una strada per la Generazione Z».
In Italia gli "Zeta" sono circa un milione e mezzo di bambini e adolescenti, ma è inutile cercare saggi e ricerche, le nostre indagini si sono fermate ai «Millennials». Di questi ultimi, diventati maggiorenni alla vigilia del nuovo secolo, il demografo Alessandro Rosina, è uno dei massimi esperti, e conferma che nel nostro paese le ricerche sui post, i ragazzini nati negli ultimi quindici anni, sono appena iniziate. «Di questa "Generazione Z" si sa ancora poco, ma alcuni tratti sono già evidenti. Sono i primi adolescenti ad avere genitori con competenze digitali, a poter comunicare con lo stesso linguaggio. Ad un "Millennial" non sarebbe capitato che la mamma mettesse le sue foto su Facebook. Genitori e figli oggi sono uniti, non divisi dalla Rete, anche se naturalmente i ragazzi cercano in tutti i modi di nascondersi ». Gli "Zeta", poi, sono la prima generazione di bambini italiani a contatto, in tutto e per tutto, con coetanei immigrati di seconda generazione, oltre il 15% soltanto nella scuola primaria. «Li caratterizza una estrema velocità, la capacità di confrontarsi con altre culture, l'autoproduzione del sapere attraverso la Rete. Sono spinti precocemente a fare da soli, e faticano a riconoscere l'autorità. Con non pochi problemi, ad esempio, sul fronte scolastico». I figli della «Generazione X» insomma sarebbero in grado, fin da piccoli, di trovare la bussola nel mondo complesso che li circonda. Esponendosi però a rischi seri. La Tv, cattiva maestra dei "Millennials", non era tanto pericolosa quanto può esserlo uno smartphone. «Perché la Tv — mette in guardia Rosina — può diffondere messaggi sbagliati, ma oltre lo smartphone c'è un ignoto ancor più rischioso».
In attesa delle ricerche italiane, bisogna attingere al libro «Generations » di Howe e Strauss (oggi scomparso) alla loro cronologia esistenziale, per raccontare miti e totem dei passaggi d'età, dal dopoguerra ad oggi. I «Baby Boomers », nati tra 1946 e il 1964, figli dell'esplosione demografica post bellica e del miracolo economico. La «Generazione X» (1965-1980) dal libro ormai classico di Douglas Coupland, i primi giovani a non conoscere guerre, a raggiungere in massa l'istruzione superiore, la rivoluzione del ‘68 e il femminismo. I "Millennias" (1981-2000), ragazzi dell'Erasmus di Schengen, liberi dalla leva obbligatoria, altamente preparati e disperatamente senza lavoro. Giovani che in Italia stabiliscono il record di denatalità, ed emigrano in massa, come i loro bisnonni.
Ora la lente d'ingrandimento si sposta sui fratelli più piccoli. Già catturati dalle ricerche di mercato, in cerca di nuovi consumatori. Eppure leggendo "I nuovi bambini", saggio di Paolo Ferri, professore di Teoria e tecnica dei nuovi media all'università Bicocca di Milano, si capisce che la Generazione Z ha già una identità precisa. Dai loro cult, come il videogioco milionario "Minecraft", che ricorda le "Città invisibili" di Italo Calvino, all'abitudine di filmare ogni momento della giornata. Dai loro miti pop, oggi Youtubers come Favij (Lorenzo Ostuni) ma anche Jovanotti, i precocissimi ragazzini Zeta sembrano consapevoli di dover riscrivere le regole del gioco.
"I nuovi bambini" è una guida, pensata da un padre (Ferri) immigrante digitale, per genitori spaventati dalla seconda pelle virtuale dei loro figli. «Gli "Zeta" sono ragazzini con il digitale nel Dna, così li ha abilmente definiti la "Jwt", grande agenzia di pubblicità. Del resto sono figli di madri che hanno messo online le ecografie di quando li aspettavano, e fin da piccolissimi hanno visto i genitori con in mano un iPhone. Bambini che rappresentano una rivoluzione antropologica, una variante dell' homo sapiens , ce ne dobbiamo fare una ragione». Il problema è la tecnofobia dei grandi. I quali però sono i primi a fare un uso malsano di Internet. Spiega Ferri: «Cosa potrà imparare teenager che vede i genitori navigare in Rete, ma solo per chattare su Facebook? Pensiamo sempre che siano i più piccoli a dover cambiare i loro comportamenti, qui invece la rivoluzione è alla rovescia e inizia dai grandi».
Ed è (anche) questo che racconta Giorgio Ghiotti, giovanissimo scrittore, classe 1994, dunque "Millennial", nel suo libro "Dio giocava a pallone" (Nottetempo). Storie di primi amori e di prime trasgressioni dei teenager della "Generazione Z". «Quando vado nelle scuole, a parlare di libri, vedo adolescenti affamati di emozioni, esattamente come eravamo noi alla loro età. Ascoltano, ma non vogliono indicazioni né strade già tracciate. La generazione Zeta cammina con regole proprie e gli adulti non possono che adeguarsi».

pubblicato da la Repubblica il 16 aprile 2015
 

giovedì 16 aprile 2015

Londonsphere - Londrasfera

POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

È il secondo articolo su Londra pubblicato da la Repubblica nel giro di un mese; per quale ragione? Leggetelo, anche se avete già studiato il Regno Unito.

METROPOLIS
Così nasce la grande Londra
di Enrico Franceschini


C'ERANO una volta le grandi città. Poi, quando hanno continuato a crescere, le abbiamo chiamate metropoli. Quindi megalopoli. Nei prossimi vent'anni Londra appare destinata a diventare qualcosa di ancora più grande e profondamente differente: una gigantesca città-ufficio per decine di milioni di pendolari che abitano non solo oltre i suoi confini metropolitani, delimitati dalla M25, l'autostrada lunga 270 chilometri che le corre intorno, ma sparsi per tutta l'Inghilterra e perfino oltre la Manica, fino a Parigi, Bruxelles, Rotterdam e oltre. "Welcome to the Londonsphere", predice il Financial Times , immaginando come sarà la capitale sul Tamigi nel 2035: benvenuti nella "Londrasfera", una calotta che come un tetto invisibile ingloba un pezzo d'Europa e attira come una calamita digitale tutto il mondo.
Per dimensioni geografiche e numero di abitanti, è già oggi la maggiore città dell'Unione Europea: suddivisa in 32 borghi che sono di fatto municipalità autonome, grande come Roma, Berlino e Amsterdam messe insieme, con una popolazione di otto milioni e 615mila abitanti che diventano 12 milioni se si considerano anche gli sterminati sobborghi. Ma sinora la sua crescita è stata per così dire naturale, graduale, costante: fondata dai Romani con il nome di Londinium su un'ansa del Tamigi nel 43 dopo Cristo, nel 1800 fu la prima città al mondo dopo l'antica Roma a raggiungere un milione di abitanti, salendo a due milioni nel 1850, sei milioni nel 1900, sette milioni nel 1910, otto milioni nel 1930, per poi declinare e risalire al livello attuale grazie all'immigrazione e alla globalizzazione, con la previsione che entro un decennio arriverà a 10 milioni di abitanti, 15 milioni comprese le periferie esterne. Ad attrarre queste moltitudini, negli ultimi due secoli, a dispetto di congestione, criminalità, malattie, è stata — come in altre megalopoli — l'opportunità di trovare più facilmente lavoro. Non una vana speranza, considerato che secondo le statistiche Londra produce da sola un terzo del Pil nazionale britannico. Ogni anno, 350mila nuovi immigrati entrano in Gran Bretagna, in larga parte diretti a Londra, senza contare gli studenti (con 43 Università ha la maggiore concentrazione di istituti di stul'espulsione di superiori in Europa) e senza considerare i turisti (16 milioni l'anno, che ne fanno la più frequentata destinazione turistica del pianeta). Non a caso qui si parlano 300 lingue e abitano tutte le razze della terra.
Ma il boom di gente che vuole vivere a Londra si scontra con un problema, riassunto da Andrew Adonis, ex-ministro laburista, scrittore e accademico, in tre parole: "Casa, casa, casa". Non si tratta più soltanto della gentrification , il termine (da gentry , piccola nobiltà) usato dagli urbanisti e dagli speculatori immobiliari per descrivere della classe operaia dalla città per fare posto alle classi medie, ai benestanti, agli yuppie. Ora sono costretti ad andarsene anche i benestanti e gli yuppie. Il prezzo medio di una three bedroom, un appartamento con tre stanze da letto, ha raggiunto un milione e 100mila sterline, circa un milione e mezzo di euro: proibitivo, irraggiungibile con qualunque mutuo da comuni mortali, a meno di vincere la lotteria o ereditare una fortuna. Se vivi a Londra, infatti, hai l'impressione che l'unico argomento di conversazione, al ristorante, ai party, nella pausa caffè in ufficio, sia la casa e il costo della medesima. Ah, no, ce n'è pure un altro di argomento: il costo delle scuole private. Quelle statali e gratuite, in città, sono accademicamente scarse e talvolta con il metal detector all'ingresso. Quelle private costano da 20 a 30mila sterline l'anno di retta d'iscrizione, diciamo intorno ai 30mila euro. Mandarci un bambino dall'asilo alla maturità costa all'incirca l'equivalente di mezzo milione di euro. Fate i conti: se avete due figli, istruirli vi costerà un milione di euro. Inconcepibile. Ci sono nonni, da queste parti, che si vendono la casa per pagare la scuola ai nipoti.
La risposta a entrambi i problemi creati dall'espansione di Londra, il caro-casa e il caroscuola, è «l'adozione di città-satellite in cui fare risiedere una nuova tribù di londinesi occasionali », sostiene Simon Kuper, columnist del quotidiano della City, in un saggio su London Essays , nuovo giornale pubblicato dal Centre for London. Nell'era vittoriana fu la metropolitana, la prima al mondo, a permettere ai londinesi di vivere nei sobborghi e lavorare in città, spiega il giornalista del Financial Times . In un futuro prossimo venturo saranno i treni ad alta velocità a permettere ai "londinesi occasionali" di vivere a centinaia di chilometri di distanza e lavorare a Londra. Qualcuno ha già cominciato: conosco inglesi che si sono venduti un monolocale in città, con quei soldi hanno comprato una casetta di tre piani a Brighton e fanno i pendolari venendo a Londra in treno in poco più di un'ora. Ma questo è niente rispetto a ciò che permetteranno i treni superveloci. Attualmente, scrive Kuper, il Regno Unito ha appena 110 chilometri di ferrovie ad alta velocità, tra Londra e il canale della Manica: servono all'Eurostar, il treno che collega Londra e Parigi in due ore. Non appena comincerà a funzionare la High Speed 2, grosso modo nei prossimi vent'anni, Birmingham, la seconda maggiore città britannica, sarà a 49 minuti di treno da Londra, e Manchester a 60 minuti. Diventerà possibile abitare da qualunque parte in Inghilterra, in luoghi in cui casa e scuola hanno prezzi umani, e lavorare a Londra. L'Eurostar collega già, oltre a Parigi, anche Bruxelles e Rotterdam con Londra in un paio d'ore. I treni superveloci moltiplicheranno le possibilità di fare i pendolari con Londra da altre città in Europa.
La "Londonsphere" renderà Londra simile alla Greater Tokyo, l'area intorno alla capitale giapponese, già servita dai bullet train , i treni-proiettile, che ne hanno fatto la più grande zona metropolitana della storia con 36 milioni di abitanti. Basta un esempio a dare il senso di cosa significa questa rivoluzione dei trasporti: Crossrail, la nuova linea superveloce con 43 chilometri di tunnel che arriveranno a Londra, dal 2018 porterà 3 milioni di passeggeri al giorno in più nel cuore della capitale, in aggiunta ai 3 milioni al giorno che già prendono i treni del metrò e ai 4 milioni al giorno sugli autobus. E per i pendolari a lungo raggio ci sono i sei aeroporti della città, con voli a basso costo che consentono di andare e venire tutte le settimane, volendo anche tutti i giorni dalla mattina alla sera, da Londra a decine di destinazioni europee lontane un'ora o due.
Ma la categoria dei "londinesi occasionali", che suona più elegante di pendolari, non dipende soltanto dalla rivoluzione dei trasporti: dipende anche dalla rivoluzione digitale. Grazie a Internet è e sarà sempre più possibile lavorare da casa propria almeno parte della settimana. E poi, nota il saggio di Kuper (il quale vive a Parigi e fa già il pendolare con il suo ufficio sulle rive del Tamigi), proprio i treni ad alta velocità offrono una piattaforma mobile da cui lavorare abbastanza comodamente: ogni poltroncina comprende un tavolino, una presa per l'energia elettrica e l'allacciamento al web. Si può lavorare anche nell'ora o due per andare al lavoro o tornare a casa. Poi, nel week-end, il "londinese occasionale" porterà la famiglia a Londra per fare shopping, visitare un museo, andare a teatro. Prepariamoci dunque alla "Londonsphere" del 2035: playground per i ricchi che possono pagare dal milione e mezzo di euro in su per un appartamento di tre camere e sterminata città-ufficio per un popolo di pendolari sparsi per tutta l'Inghilterra e mezza Europa.

Pubblicato da la Repubblica il 15 aprile 2015


mercoledì 15 aprile 2015

Le Esposizioni universali



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

Cosa resta di un’Expo
di Federico Rampini


È LA DOMANDA-CHIAVE. Decine di città e di stati se lo sono chiesti da centosessantaquattro anni in qua. A volte la domanda si è tinta di angoscia, di fronte al conto da pagare. Che cosa resta di un'Expo? A parte, s'intende, i processi per tangenti o le polemiche sui cantieri incompiuti, almeno nel caso milanese.
La prima Esposizione universale a portare questo nome si tiene a Londra nel 1851: quell'evento segna la storia dell'architettura moderna, il Crystal Palace in vetro-acciaio ne è una pietra miliare. Così come lo sarà la Tour Eiffel a Parigi, anch'essa creatura-trofeo di un'Expo (1889). Vale un po' anche per l'Atomium di Bruxelles, per quanto appaia anacronistica quella rappresentazione trionfale dell'energia nucleare, eretta nel 1958 quando il ricordo di Hiroshima era ancora fresco. Dunque, le tracce possono restare eccome: durevoli, simboliche, bandiere di un'epoca. Certo, non è detto che la costruzione di un edificio destinato a diventare icona (come la Tour Eiffel o le guglie spaziali di Seattle 1962 e Brisbane 1988) basti a provare un lascito duraturo; ma può essere almeno un buon indizio che l'Expo abbia intercettato un'idea forte. In certi casi l'evento espositivo può addirittura suonare profetico, annunciare la vocazione futura di una città: come la Panamericana di San Francisco di cui commemoriamo il centenario proprio quest'anno. Nel 1915, mentre l'Europa sprofondava nella Prima guerra mondiale, la California non si limitava a festeggiare l'inaugurazione del Canale di Panama che le avrebbe dato un ruolo enorme nei commerci mondiali, abbattendo i tempi del trasporto navale tra Atlantico e Pacifico. L'Esposizione Pan-americana propose San Francisco come vetrina d'invenzioni, prefigurando quel ruolo di tecnopoli, capitale della Silicon Valley, che era ancora di là da venire: ci sarebbe voluto l'attacco giapponese a Pearl Harbor, la necessità di spostare nel 1941 la ricerca militare verso la West Coast, gli investimenti del Pentagono nell'elettronica. Tant'è, l'Expo di San Francisco con la costruzione del Palace of Fine Arts (oggi sede dell'Exploratorium) fu una specie di faro acceso sul futuro, l'annuncio visionario di quel che sarebbe diventata la California.
Per rispondere alla domanda su "cosa resta" di un'Esposizione universale, bisogna tenere conto del contesto: le aspettative nate attorno all'evento, la missione che gli è stata assegnata. Almeno durante i primi cinquant'anni della loro storia, le Esposizioni universali furono perfettamente racchiuse nella definizione del filosofo tedesco Walter Benjamin: "Siti di pellegrinaggio per il feticismo della merce". La teoria del feticismo della merce l'aveva costruita Karl Marx nel suo Capitale . Per Benjamin nelle Esposizioni quell'idolatria della produzione materiale trovava il suo tempio e la sua apoteosi.
Cominciando dall'evento inaugurale di Londra, pensato dal modernista Principe Alberto, e fino alla Prima guerra mondiale, le Expo interpretano a perfezione un'èra di fiducia nel progresso, ottimismo sul futuro, adorazione della tecnica. Quei raduni internazionali per visitatori curiosi accompagnano processi ben più profondi e strutturali in molte nazioni avanzate: come le riforme scolastiche che introducono una formazione professionale adeguata ai nuovi mestieri industriali. È un'epoca che preannuncia e poi coincide con il Secolo Americano. Non a caso tante Expo si susseguono in tutte le metropoli manifatturiere degli Stati Uniti, comprese alcune città oggi "arrugginite" dal declino industriale: Philadelphia nel 1876, Chicago nel 1893, Buffalo nel 1901, Saint Louis nel 1904. New York ne ospiterà a ripetizione. L'Expo di quei tempi è un evento così importante che spesso diventa il palcoscenico per presentare al mondo una nuova invenzione rivoluzionaria, come il telefono di Alexander Graham Bell: collaudato in pubblico all'Expo di Philadelphia nel giugno 1876, ha tra i suoi primi testimoni affascinati l'imperatore del Brasile Pedro II. A San Francisco nel 1915 s'inaugura la prima linea telefonica con l'altra costa, che consente ai newyorchesi di ascoltare il rumore delle onde dall'Oceano Pacifico. Il Museo Leonardo da Vinci, a Milano, elenca altri esempi di invenzioni o nuovi prodotti "lanciati" in occasione delle Expo: il visore stereoscopico nel 1870, la macchina da scrivere Remington nel 1890, il fonografo, il cinematografo, il pallone aerostatico, la ferrovia sopraelevata. Le tragedie delle due guerre mondiali costringono l'Occidente a un traumatico riesame della sua idea di progresso. Già nel conflitto del 1914-18 è evidente quanto la tecnica possa mettersi al servizio della barbarie: la Germania sperimenta le prime armi di distruzioni di massa (gas) e i primi bombardamenti deliberati sulle popolazioni civili (Londra), attirandosi poi rappresaglie della stessa natura. Da quel periodo anche le Expo escono trasfigurate. Più che celebrare le vittorie della tecnica, si entra in una fase dove le Esposizioni sono esse stesse un terreno di battaglia dei nazionalismi. Il fascismo ci prova con Roma nel 1942, ma resta l'unica Expo cancellata per una guerra; caso raro di un intero quartiere (l'Eur) costruito per un evento che non si terrà. Dopo la Seconda guerra mondiale il filone prosegue ma deve correggere il tiro: l'Expo rimane una vetrina per promuovere il "marchio" di una nazione a condizione che il contesto sia improntato alla comprensione tra i popoli, alla cooperazione, alla pace. L'America post-kennedyana dà praticamente in appalto alla Walt Disney tutta l'Expo di New York del 1964, che adotta come slogan "It's a small world" (il mondo è piccolo), il tema musicale che tuttora si può ascoltare nel parco tecnologico di Epcot-Disneyworld a Orlando, in Florida. Di nuovo segno dei tempi, le Expo possono perfino favorire i primi passi del disgelo Est-Ovest (Montréal 1967, Osaka 1970). La Spagna nel 1992 a Siviglia celebra la sua appartenenza all'Unione europea, in tempi in cui questa destava un entusiasmo generale.
Un caso particolare — quasi un ritorno alle origini — è Shanghai 2010. Visitata da settantatrè milioni di persone, un record nella storia di questi eventi, Shanghai è stata a suo modo una riedizione del "feticismo" di cui parlava Benjamin: nel senso che è servita a presentare soprattutto a decine di milioni di cinesi delle province i fasti della globalizzazione e della modernità. Un altro aspetto di Shanghai che invece ci riporta a vicende più attuali: si tratta dell'ultimo grande evento globale organizzato dalla Cina sotto il potere di Hu Jintao, e quando era ancora forte il "clan shanghainese" del predecessore Jiang Zemin. Tutti e due investiti dall'offensiva del successore, l'attuale presidente Xi Jinping. Che s'installa al comando nel 2012, lancia una serie di inchieste sulla corruzione, e smantella pezzo dopo pezzo le correnti avversarie del Partito comunista.
Shanghai è rappresentativa anche per il vento del Terzo millennio che soffia su tutte le Expo, Milano inclusa. Da una parte c'è l'austerity: dal 2000 (Hannover) in poi molti governi cominciano a mostrare riluttanza verso i costi elevati. Gli Stati Uniti aprono la strada nel delegare a sponsor privati la loro rappresentanza: tant'è che sia a Shanghai sia a Milano la partecipazione Usa è stata in forse fino all'ultimo, perché il Dipartimento di Stato ormai si limita a fare da coordinatore dei finanziatori privati. Sul fronte delle idee in tutte le Expo del nuovo millennio, da Hannover ad Aichi (Giappone), da Shanghai a Milano, la sostenibilità diventa il tema dominante. La tecnologia di fronte alla sfida di salvare un pianeta in pericolo grave: un problema che i visitatori del Crystal Palace nel 1851 avrebbero faticato a immaginare.

Pubblicato da la Repubblica il 12 aprile 2015 




Le ragazze bulle



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

Vedo che non leggete i post: come mai? E' inutile che stia qui a lavorare per niente! Ditemelo e faccio altre cose. Vediamo se un articolo sulle "ragazze cattive" può interessarvi!

Dal web alla scuola
la carica delle bulle
"Un violento su tre è una ragazza"
di Corrado Zunino


Non voleva andare più a scuola Marina, 14 anni neppure compiuti. La sua scuola è nel centro di Massa Carrara. Aveva preso botte, tanti schiaffi, da una ragazza di due anni più grande, due anni più alta e cattiva. Erano a un passo dall'istituto, quando è accaduto. «Sfigata, ti sei messa contro di me». Colpiva e riprendeva con lo smartphone. L'ha ridotta male e poi l'ha umiliata postando tutto su Facebook. I commenti delle compagne, anche quelle che erano in classe con Marina, sono stati cattivi, di una gratuità avvilente. Risolini iconizzati, «l'ha ridotta uno straccio, d'altronde quella si veste come uno straccio». E poi commenti personali come solo gli adolescenti riescono a fare: «La disgrazia si è abbattuta su una disgraziata». Lo scorso febbraio quel video di violenza l'ha visto la mamma di Marina, ed è andata dritta alla polizia postale.
Racconta la funzionaria della postale di Firenze che le adolescenti che non denunciano sono molte di più. Per vergogna e perché hanno paura di essere tagliate fuori. «Noi suggeriamo alle vittime di bullismo di cancellare l'account su WhatsApp, ma non vogliono: su quello smartphone corrono tutte le loro relazioni, c'è il loro mondo».
Il dossier della polizia sul cyberbullismo contemporaneo, costruito da Skuola.net, racconta che ormai le offese e le botte partono da bambine-ragazze una volta su tre. Le giovani donne sono sempre più violente. A Livorno, a cavallo tra il 2014 e l'anno che corre, la rivalità tra femmine — maschietti contesi — è arrivata sotto casa della vittima. Le nemiche di una quindicenne hanno scritto sotto la finestra, con nome e cognome cubitali: «... è una troia, offre prestazioni a tutti». E poi il solito Facebook utilizzato come un ariete che sfonda la privacy portando sugli schermi dei coetanei nuovi insulti e nuove bugie. Nella provincia di Siena hanno messo sui telefonini, ferocissime, le goffaggini di una ragazzina non vedente che faticava a mettersi lo zaino in spalla e quando si sedeva scopriva involontariamente le gambe. Risate, commenti gaglioffi. «Quasi mai insegnanti e presidi comprendono la rabbia dei genitori delle adolescenti maltrattate, la gravità della situazione», spiega chi investiga.
In provincia di Cagliari la bulla, 15 anni, con una falsa foto di un poliziotto sul profilo WhatsApp insolentiva l'amica passata di moda: «Sei brutta», e faceva girare il commento nella cerchia del gruppo classe. Il sexting (far girare foto compromettenti) è, per diffusione, il primo cyber problema di questa generazione. «I ragazzi vorrebbero parlare, ma spesso non con i genitori». Otto casi recenti si sono registrati a Catania, città complicata. Tre riguardano dodicenni, prima media. Sono dovuti intervenire papà e mamma a scuola per far sì che l'aggressione digitale non diventassero lividi. Dicevamo del dossier della polizia postale. Su 15.268 ragazzi intervistati dal portale Skuola.net, uno su tre si è dichiarato vittima di bullismo. La fascia d'età più esposta è tra i 14 e i 17 anni. L'87 per cento delle vittime è stato preso di mira nella vita reale, ma lo stalking online cresce tra le adolescenti. Quasi l'85 per cento degli studenti appartiene a un gruppo classe su WhatsApp, il 97 ha uno smartphone. Contro un fenomeno che cresce e offende si è sviluppato il progetto "Una vita da social", incontri degli esperti della postale nelle scuole: mezzo milione gli studenti raggiunti. E domani il ministro Stefania Giannini annuncia le linee guida di una legge sul cyberbullismo otto anni dopo quella del ministro Fioroni. Formazione del personale, scuole scelte sul territorio dove poter denunciare, numero verde collegato a Telefono azzurro, due hot line di Save the Children per segnalare materiale pedopornografico. "Utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media", dice, d'altronde, il disegno di legge "La buona scuola".

Pubblicato da la Repubblica il 12 aprile 2015

venerdì 10 aprile 2015

Ancora sui rom: 2 interviste e 1 commento



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

Mercoledì 8 aprile 2015 il leader della Lega Nord ha detto durante una trasmissione televisiva che “i campi rom andrebbero rasi al suolo”; naturalmente quando i politici dicono delle stupidaggini (magari per sperare di avere il voto dei cittadini) c’è sempre qualcuno che protesta e ne parla sui giornali, pur sapendo che è tutta pubblicità gratuita. Io da adulto non ne posso più, né dei politici scemi, né dei giornalisti che li seguono; i miei alunni, che sono ancora giovani, avranno di sicuro meno pregiudizi di me, perciò li invito a leggere queste 2 interviste e il commento di Michele Serra, apparse ieri (9 aprile 2015) su la Repubblica.

INTERVISTA 1 a Don Paolo Cristiano, sacerdote della Comunità di Sant’Egidio:
"Contro di loro solo pregiudizi,
la nostra società si spaventa
davanti a povertà e diversità"

"I ROM? Spesso non sono accettati perché vittime di pregiudizi. La nostra società fatica ad accettare la diversità ed è spaventata dalla povertà. Ma il pregiudizio è sempre menzognero: non permette di vedere davvero chi si ha di fronte".
Don Paolo Cristiano, sacerdote della Comunità di Sant'Egidio, vive a Ferentino, in Ciociaria. Per quasi venti anni ha guidato un dopo scuola per i bambini che vivono nei campi rom. Al di là dei pregiudizi, chi sono i rom?
"Un popolo di bambini che necessitano di aiuto e affetto. Per la maggior parte sono stanziali, abitano in Italia da anni, qui da noi ce ne sono molti abruzzesi e molisani. Un popolo mite, che non ha mai rivendicato terre con guerre e conflitti. Che non si è mai imposto. Eppure è un popolo che soffre il disprezzo e la discriminazione. Rappresentano la più grande minoranza europea. Qui da noi vivono quasi tutti in appartamenti, in case come quelle di tutti gli altri. E molti hanno anche un lavoro. Conosco rom pizzaioli, altri che guidano gli autobus a Roma, molti hanno piccoli negozi o attività proprie. Una ragazza rom di qui sta attualmente frequentando la facoltà di giurisprudenza".
Alcuni però vivono ancora nei campi. Cosa pensa di quelle situazioni?
"Sono purtroppo sono costretti a farlo. Quelle situazioni riguardano soprattutto i rom arrivati dall'est Europa, rinchiusi in questi campi che altro non sono che ghetti. Penso che questa è una logica che andrebbe superata. Perché i rom sono persone come noi: con le stesse domande, con la stessa esigenza di significato, con lo stesso desiderio di Dio. Al doposcuola i bambini chiedono il perché delle loro sofferenze, di quelle dei loro genitori e dei loro amici rom che spesso muoiono in tenera età. E hanno importanti tradizione religiose: ci sono infatti rom di tradizione ortodossa, musulmana, sono tutte persone con vivono un grande senso religioso. Spesso però finiscono per sentirsi disorientati. Perché desidererebbero affidarsi a qualcuno ma non trovano aiuto. Vorrebbero riuscire a superare le piccole e grandi barriere con le quali sono costretti a vivere ma spesso la nostra società non lo permette".

INTERVISTA 2 a Moni Ovadia, scrittore e attore ebreo:
"Non hanno Stato né governo
mai avuto eserciti o fatto guerre
e da secoli vengono perseguitati"

«LE RADICI dell'odio nei loro confronti sono dentro di noi: nutrite dalla paura dell'altro, per storia e tradizioni. È una realtà che attraversa i secoli». Moni Ovadia, scrittore, attore, regista, ebreo nato in Bulgaria e milanese di adozione non ha dubbi.
Un odio lungo secoli?
«É la storia dell'umanità, la cultura maschile ha odiato temuto e tenuto in soggezione la donna perché portatrice di diversità, poi è toccato agli ebrei, in fuga e nei ghetti per secoli, vittime di maldicenze e persecuzioni perché sentiti estranei e quindi pericolosi. Ora gli ebrei sono diventati più uguali, sono inseriti, non sono più quelli della diaspora. Hanno uno Stato, un governo, un esercito che li difende. I nomadi no».
Rom odiati perché senza storia e difese?
«Non hanno uno Stato, un governo, mai avuto un esercito, né chi racconti all'esterno delle comunità la loro storia. Tranne un bellissimo libro di un rom abruzzese, Spinelli, che narra il loro calvario, dal Medioevo a oggi, con milioni di vittime anche nei campi di concentramento. Dimenticate da tutti».
Ma alcuni rubano, scippano...
«E perché a Napoli o Milano i ragazzini italiani non rubano? Eppure nessuno pensa di incendiare Portici o di mettere il filo spinato. Noi italiani che abbiamo quattro mafie e bruciamo ogni anno miliardi di euro tra criminalità e corruzione puntiamo il dito contro di loro? Ridicolo. Come in ogni popolo c'è l'onesto e l'imbroglione. Eppure, è contro rom e sinti che si scatena il livore, perché diversi, vissuti come nemici, estranei, sconosciuti. Capaci di metterci in discussione».
Vittime dei luoghi comuni?
«Ci sono luoghi comuni sui sinti e rom nomadi e ladri, quando invece la maggior parte è stanziale, ha case e lavora. E luoghi comuni su gli italiani brava gente quando, invece, ormai è provato: hanno fatto massacri in Africa peggio dei nazisti».
Che fare?
«Invece di seguire Salvini che minaccia di radere al suolo i campi solo perché va a caccia di voti, solleticando la parte più povera e meno colta della popolazione, dovremmo investire soldi, creare incontri, comunicazione, mediazione. Spendere per i poveri, i pensionati italiani ma anche per i rom e sinti».


LA POLITICA DELLA FEROCIA
di Michele Serra

È SPERABILE e forse probabile che Matteo Salvini, quando dice che bisognerebbe "radere al suolo i campi Rom", abbia in mente qualcosa di meno insolente e meno violento. Per esempio che, con congruo preavviso, quei campi andrebbero sgomberati.
Perché, allora, Salvini dice proprio "raderli al suolo"? Lo dice perché è al tempo stesso artefice e vittima di uno dei più funesti equivoci della scena politica italiana degli ultimi anni. L'idea che il "parlare come si mangia" sia un decisivo passo avanti; mentre è un penoso, umiliante passo indietro.
La politica è — da sempre — il tentativo di dare una forma, anche verbale, alle pulsioni di massa. Di renderle, diciamo così, presentabili in pubblico, e non per il piacere privato di quattro intellettuali, ma per dare una voce più intellegibile e dunque più autorevole soprattutto a chi voce non ha. Che quella dei campi rom sia una questione sociale rilevante, e lo sia tanto per i rom quanto per chi con quei campi convive, è perfettamente vero. Ma nemmeno il più ottuso e infelice dei politici, a meno che sia un nazista (e Salvini non lo è) può dire pubblicamente che quei campi vanno "rasi al suolo" senza attirarsi la dura critica e lo spregio di chi (per esempio la Caritas) la politica la fa sul campo. La fa nelle strade e nelle case, nelle periferie e nei campi nomadi, non nei "salotti del centro" tanto invisi a Salvini: e proprio per questo conosce le difficoltà, la fatica, la povertà, il degrado, le paure, il dolore umano, insomma la maledetta complicazione del problema. E detesta le semplificazioni becere, quelle scodellate in tivù per cercare l'applauso facile.
L'urlaccio, il grido minaccioso, il borborigmo che non trova sbocchi non sono politica. Sono, della politica, un ingrediente bruto che chi fa politica ha il dovere di elaborare. Ignorare quegli ingredienti per non sporcarsi le mani è un vizio grave. Ma ficcarcele dentro, le mani, estraendone i peggiori effluvi e le più dolenti frattaglie come trofei, è il vizio opposto. In questo vizio sguazza, fino dalle sue origini, la Lega, che della sua matrice "popolana" si fa un vanto. Non rendendosi conto che il politicamente scorretto, per quanto lucroso (a tratti) e per quanto di facilissimo conio, ha il difetto strutturale di non riuscire a risolvere neanche mezzo problema.
Se il politicamente corretto è spesso ipocrita, il politicamente scorretto è sempre impotente, rabbia da parata, smargiassata mediatica, niente che odori di soluzione anche parziale, anche imperfetta dei problemi. Niente che possa diventare governo, egemonia culturale, nuova identità condivisa e operativa. Se non si è Hitler o Tamerlano il politicamente scorretto, la minaccia feroce, le soluzioni finali sono solamente il segno della più fragorosa inettitudine.
A questo danno interno, il politicamente scorretto aggiunge i danni inflitti, suo malgrado, alla comunità intera. Come un contagio. La dequalificazione del linguaggio politico, la sua capillare corrosione fa male a tutti indistintamente. Contamina, indebolisce, danneggia, peggiora, incanaglisce: diventa parte integrante del discredito della politica e della classe dirigente. Un personaggio come Razzi, oggi considerato una amabile macchietta, fino a non troppi anni fa sarebbe stato visto come una figura scandalosa o un caso umano da soccorrere.
Quando ci si abitua a sdoganare l'insolenza, l'aggressività e l'ignoranza come ragioni identitarie, niente può più sbalordire e niente può più indignare. Fino a vent'anni fa a dire che bisogna "radere al suolo" i campi rom era qualche personaggio da bar. Nei bar si diceva (e si dice) anche molto peggio. Ma trasformare la polis in un bar vuol dire non avere alcun rispetto né della polis, né del bar.


giovedì 9 aprile 2015

I rom e noi



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

Leggete questo articolo, pubblicato ieri, 8 aprile 2015, giornata internazionale dei rom e dei sinti, su la Repubblica. L’argomento è molto delicato, ma non per questo si può fare finta di niente. Così come, però, non si può far finta di risolvere il problema, adottando soluzioni che io definisco DISUMANE. Ne riparliamo domani, quando posterò altri articoli apparsi sul giornale oggi. Intanto buona lettura di questo articolo.

COSA SERVE DAVVERO PER INTEGRARE I ROM

Di Nils Muiznieks *
POCHI argomenti scatenano reazioni più viscerali delle discussioni sui rom, di cui oggi ricorre la giornata internazionale. Stereotipi, sensazionalismo e luoghi comuni spesso hanno la meglio sui fatti. Molte persone sembrano credere che i rom scelgano di vivere ai margini della società in accampamenti di baracche in condizioni abominevoli, e che rientri nella loro cultura far crescere i bambini nella melma, togliendoli dalla scuola per mandarli a chiedere l'elemosina. Eppure, nella maggior parte dei casi, coloro che nutrono questi pregiudizi nei confronti dei rom e alimentano queste voci non hanno mai rivolto loro la parola.
Ho fatto visita ad alcuni campi rom in Italia e in molti altri paesi europei, e le persone con le quali ho parlato non volevano vivere lì. Non vogliono vivere in luoghi demoralizzanti nei quali sono segregati contro la loro stessa volontà. Non ci si dovrebbe dimenticare che molti rom che vivono in accampamenti ghetto sono stati scacciati a forza dai loro alloggi precedenti, e nessuno degli abitanti di quei campi che ho conosciuto durante il mio sopralluogo del 2012 ha dichiarato di essersi trasferito lì di sua volontà. Anzi: mi sono stati riferiti molti esempi che spiegano in che modo — rispetto alla loro situazione abitativa precedente — vivere in quei campi limita il contatto, e quello dei loro figli, con la popolazione in generale, e in che modo vivere lì contribuisce quindi alla loro emarginazione.
Già nel mio rapporto del 2012 sull'Italia e in una lettera spedita al sindaco di Roma nel 2013 raccomandavo alcune misure atte a facilitare l'integrazione dei rom nella società tradizionale e facevo presente la necessità di porre fine alle politiche che portano alla creazione di campi isolati ed emarginati e agli sfratti coatti. Malgrado ciò, sono stati fatti pochi passi avanti: queste pratiche proseguono e così pure continuano a esserci ostacoli che precludono ai rom che vivono in accampamenti fatiscenti di accedere all'edilizia popolare. In alcuni comuni, tra i quali Roma, Torino e Milano, sono stati costruiti o ristrutturati campi ghetto.
Questa strada è chiaramente sbagliata. I campi ghetto portano a gravi violazioni dei diritti umani. Violano sia i parametri internazionali e nazionali sia la politica delle stesse autorità italiane in materia: la Strategia nazionale per l'inclusione dei rom del 2012 non lascia spazio alcuno agli accampamenti che emarginano. Si devono dunque trovare valide alternative abitative.
Per agevolare l'inclusione dei rom nella società, si rende necessario un cambiamento di politica. Gli sfratti coatti e i campi ghetto devono finire nel dimenticatoio. Nuovi sforzi devono essere fatti per andare incontro alle necessità abitative dei rom. Tutto ciò è importante perché l'accesso a un'abitazione decorosa è un requisito fondamentale per usufruire di molti altri diritti umani, in particolare l'istruzione. Come possono i bambini che vivono in baraccopoli di località remote, circondate da fango e prive di accesso all'acqua potabile, a sistemi fognari, alla rete elettrica e ai trasporti pubblici, frequentare la scuola con regolarità e apprendere, restando alla pari con gli altri bambini?
Per cercare alternative migliori, l'Italia non ha bisogno di guardare tanto lontano. Alcune esperienze incoraggianti portate avanti a livello locale potrebbero essere prese a esempio. A Messina alcuni edifici comunali abbandonati sono stati ristrutturati direttamente dai rom del campo di San Ranieri che in seguito vi si sono trasferiti. Ad Alghero il 15 gennaio è stato chiuso il campo di Arenosu e 51 rom hanno ricevuto un aiuto quadriennale dalla Regione, dal Comune e dalle associazioni per pagare l'affitto di normali appartamenti.
Queste iniziative dimostrano che, con un adeguato impegno politico, alcuni progetti ben strutturati possono effettivamente migliorare l'integrazione dei rom e una reciproca comprensione con la popolazione maggioritaria. È di fondamentale importanza finanziare e attuare la strategia nazionale di inclusione di rom e sinti. Alcune risorse, comprese quelle provenienti da finanziamenti Ue, potrebbero essere convenientemente mobilitate per promuovere iniziative adeguate di edilizia e integrazione.
È giunto il momento di smettere di trattare i rom come cittadini di serie B. Emarginarli non può che portare a maggiore alienazione, emarginazione, pregiudizi. L'Italia deve mostrare molta più determinazione nel risolvere i problemi di abitazione che i rom si trovano ad affrontare, anche facilitando il loro accesso all'edilizia popolare. Le vigenti leggi anti-discriminatorie dovrebbero renderlo possibile: le si deve quindi applicare. Questo è il prerequisito di base per garantire che i diritti umani dei rom, siano essi italiani o originari di altri paesi europei, siano interamente rispettati.

* L'autore è il Commissario ai Diritti Umani del Consiglio d'Europa ( Traduzione di Anna Bissanti)


venerdì 3 aprile 2015

Insetti killer!



POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:

Dedicato ai nonni di Sara, che so che coltivano pomodori, e a tutti gli altri nonni dei miei alunni, che coltivano pomodori ma non lo so!

L'ultimo insetto killer arriva dal Giappone
Sotto attacco i nostri pomodori
di Jenner Meletti


MEGLIO stare attenti: l'attacco può arrivare dal mare e dal cielo. Gli alieni viaggiano in nave e in aereo ma non disdegnano camion e automobili. «In questi primi giorni di primavera — dice Mario Colombo, entomologo dell'università statale di Milano — l'ultimo alieno che abbiamo trovato, la Popillia japonica — sta lavorando sotto terra. Le sue larve bianche, dal mese di settembre, stanno mangiando le radici delle piante. Quando sono numerose, possono fare sparire un intero prato. A fine maggio le larve si trasformeranno in scarabeidi, lunghi circa 12 millimetri, con torace verde — dorato brillante. Potranno attaccare 295 specie vegetali, di cui almeno cento di forte interesse economico, come il mais, la vite, il pomodoro, i meli, i fiori… E con l'inverno mite che c'è stato, non possiamo aspettarci nulla di buono».
L'allarme è stato lanciato dalla Coldiretti della Lombardia. «Dal Giappone il nuovo Attila di piante e fiori. Arriva l'Alien dagli occhi a mandorla». Dai testi di entomologia non è dato sapere se la Popillia abbia davvero occhi a mandorla, ma il nuovo arrivato fa paura. «Negli Stati Uniti — dice Ettore Prandini, presidente della Coldiretti lombarda — dove è presente dal 1916, il coleottero giapponese rappresenta la specie di insetto infestante più diffusa. Secondo il dipartimento di Agricoltura degli Usa gli interventi di controllo costano più di 460 milioni di dollari all'anno».
La Popillia japonica è stata scoperta a Turbigo, nel parco del Ticino — non lontano da Malpensa — nel luglio scorso. «Era già presente in Europa — racconta il professor Mario Colombo — ma solo nelle isole Azzorre. Secondo la Banca dati mondiale delle specie invasive sono oltre 200 quelle presenti nel nostro Paese. I commerci spregiudicati o incoscienti, il turismo o più semplicemente incauti spostamenti di persone e materiali possono essere causa di perenne calamità ».
Correva l'anno 1980 quando il professor Colombo scoprì, in provincia di Como, un pidocchio delle piante che infestava i noci. «Era stato trovato solo nel 1929 a Darjeeling, 12.000 chilometri di distanza da Como, fra la Cina e l'India. Il British Museum, per la sua collezione mondiale di insetti, mi chiese qualche esemplare perché di quell'afide avevano solo due zampette e due antenne. Quella fu solo la prima scoperta. Ogni anno ci sono tre o quattro specie arrivate da altre parti del mondo. Una graduatoria fra le più nocive? Al primo posto il tarlo asiatico, Anoploplora chinensis, che mangia l'interno dei tronchi e fa cadere gli alberi. Al secondo la zanzara tigre. Aedes albopictus, che punge non solo all'alba e al tramonto ma tutto il giorno e tutto l'anno. Sul terzo gradino del podio metto la Popillia japonica. È stata localizzata nel parco del Ticino, ma quando trovi un insediamento, sai che questo insetto molto facilmente è già presente in un territorio più vasto. Non sarà un'annata facile, dicevo. In questo inverno non c'è stato un vero gelo e così gli insetti che dovevano morire — come i pidocchi delle piante, le farfalle dei gerani, le zanzare… — non sono morti e quelli che dovevano subire una forte riduzione non sono affatto indeboliti».
Che fare? «Per la Popillia si metteranno trappole attrattive, per catturare migliaia di esemplari e distruggerli. Ma non basterà. Si useranno anche insetticidi ma il trattamento chimico deve essere limitato. L'importante è trovare un antagonista naturale — come si è fatto ad esempio con l'insetto parassitoide Torymus contro la Vespetta galligena del castagno — per ricostruire un equilibrio ecologico. Ma ci vorranno tre, cinque o dieci anni». I coltivatori sono i più preoccupati. «Sono ormai globalizzati — dice Ettore Prandini — anche i parassiti. Ci troviamo a fare i conti con specie originarie dell'Asia o delle Americhe per le quali il nostro ambiente non è preparato e non ha predatori naturali. Dopo la Diabrotica del mais e il tarlo asiatico, dobbiamo affrontare questa Popillia». E non è finita: nei giorni scorsi in Brianza forse è arrivata anche la Xylella, il batterio che sta uccidendo olivi ed agrumi nel Sud. Sembra che abbia infestato piante di Coffea arabica, usate come ornamentali, arrivate dal Costa Rica.
In qualche caso, contro gli alieni, ci sarà una vera e propria guerra. «Sto studiando in particolare — racconta il professor Colombo — l'azione di contrasto alla vespa velutina, che afferra in volo le api e le uccide. È aggressiva più del calabrone, anche verso l'uomo. Seri problemi anche per l'Aethina tumida, un piccolo coleottero che distrugge i favi». Contro la vespa velutina, chiamata anche vespa killer, si userà anche il radar. Il professor Marco Porporato, del dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari dell'università di Torino sta sperimentando un sistema radar capace, tramite una minuscola antennina installata su un esemplare, di seguire il volo della vespa fino al suo nido, che così viene individuato e distrutto. Forse questa battaglia sarà vinta. Ma altri Alien sono pronti. E potranno scegliere vie di mare, di cielo e di terra.




pubblicato da la Repubblica il 1 aprile 2015