POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:
Cosa resta di un’Expo
di Federico Rampini
È LA DOMANDA-CHIAVE. Decine di
città e di stati se lo sono chiesti da centosessantaquattro anni in qua. A
volte la domanda si è tinta di angoscia, di fronte al conto da pagare. Che cosa
resta di un'Expo? A parte, s'intende, i processi per tangenti o le polemiche
sui cantieri incompiuti, almeno nel caso milanese.
La prima Esposizione universale a
portare questo nome si tiene a Londra nel 1851: quell'evento segna la storia
dell'architettura moderna, il Crystal Palace in vetro-acciaio ne è una pietra
miliare. Così come lo sarà la Tour Eiffel a Parigi, anch'essa creatura-trofeo
di un'Expo (1889). Vale un po' anche per l'Atomium di Bruxelles, per quanto
appaia anacronistica quella rappresentazione trionfale dell'energia nucleare,
eretta nel 1958 quando il ricordo di Hiroshima era ancora fresco. Dunque, le
tracce possono restare eccome: durevoli, simboliche, bandiere di un'epoca.
Certo, non è detto che la costruzione di un edificio destinato a diventare
icona (come la Tour Eiffel o le guglie spaziali di Seattle 1962 e Brisbane
1988) basti a provare un lascito duraturo; ma può essere almeno un buon indizio
che l'Expo abbia intercettato un'idea forte. In certi casi l'evento espositivo
può addirittura suonare profetico, annunciare la vocazione futura di una città:
come la Panamericana di San Francisco di cui commemoriamo il centenario proprio
quest'anno. Nel 1915, mentre l'Europa sprofondava nella Prima guerra mondiale,
la California non si limitava a festeggiare l'inaugurazione del Canale di
Panama che le avrebbe dato un ruolo enorme nei commerci mondiali, abbattendo i
tempi del trasporto navale tra Atlantico e Pacifico. L'Esposizione
Pan-americana propose San Francisco come vetrina d'invenzioni, prefigurando
quel ruolo di tecnopoli, capitale della Silicon Valley, che era ancora di là da
venire: ci sarebbe voluto l'attacco giapponese a Pearl Harbor, la necessità di
spostare nel 1941 la ricerca militare verso la West Coast, gli investimenti del
Pentagono nell'elettronica. Tant'è, l'Expo di San Francisco con la costruzione
del Palace of Fine Arts (oggi sede dell'Exploratorium) fu una specie di faro
acceso sul futuro, l'annuncio visionario di quel che sarebbe diventata la California.
Per rispondere alla domanda su
"cosa resta" di un'Esposizione universale, bisogna tenere conto del
contesto: le aspettative nate attorno all'evento, la missione che gli è stata
assegnata. Almeno durante i primi cinquant'anni della loro storia, le
Esposizioni universali furono perfettamente racchiuse nella definizione del
filosofo tedesco Walter Benjamin: "Siti di pellegrinaggio per il feticismo
della merce". La teoria del feticismo della merce l'aveva costruita Karl
Marx nel suo Capitale . Per Benjamin nelle Esposizioni quell'idolatria della
produzione materiale trovava il suo tempio e la sua apoteosi.
Cominciando dall'evento
inaugurale di Londra, pensato dal modernista Principe Alberto, e fino alla
Prima guerra mondiale, le Expo interpretano a perfezione un'èra di fiducia nel
progresso, ottimismo sul futuro, adorazione della tecnica. Quei raduni
internazionali per visitatori curiosi accompagnano processi ben più profondi e
strutturali in molte nazioni avanzate: come le riforme scolastiche che
introducono una formazione professionale adeguata ai nuovi mestieri
industriali. È un'epoca che preannuncia e poi coincide con il Secolo Americano.
Non a caso tante Expo si susseguono in tutte le metropoli manifatturiere degli
Stati Uniti, comprese alcune città oggi "arrugginite" dal declino
industriale: Philadelphia nel 1876, Chicago nel 1893, Buffalo nel 1901, Saint
Louis nel 1904. New York ne ospiterà a ripetizione. L'Expo di quei tempi è un
evento così importante che spesso diventa il palcoscenico per presentare al
mondo una nuova invenzione rivoluzionaria, come il telefono di Alexander Graham
Bell: collaudato in pubblico all'Expo di Philadelphia nel giugno 1876, ha tra i suoi primi
testimoni affascinati l'imperatore del Brasile Pedro II. A San Francisco nel
1915 s'inaugura la prima linea telefonica con l'altra costa, che consente ai
newyorchesi di ascoltare il rumore delle onde dall'Oceano Pacifico. Il Museo
Leonardo da Vinci, a Milano, elenca altri esempi di invenzioni o nuovi prodotti
"lanciati" in occasione delle Expo: il visore stereoscopico nel 1870,
la macchina da scrivere Remington nel 1890, il fonografo, il cinematografo, il
pallone aerostatico, la ferrovia sopraelevata. Le tragedie delle due guerre
mondiali costringono l'Occidente a un traumatico riesame della sua idea di progresso.
Già nel conflitto del 1914-18 è evidente quanto la tecnica possa mettersi al
servizio della barbarie: la Germania sperimenta le prime armi di distruzioni di
massa (gas) e i primi bombardamenti deliberati sulle popolazioni civili
(Londra), attirandosi poi rappresaglie della stessa natura. Da quel periodo
anche le Expo escono trasfigurate. Più che celebrare le vittorie della tecnica,
si entra in una fase dove le Esposizioni sono esse stesse un terreno di
battaglia dei nazionalismi. Il fascismo ci prova con Roma nel 1942, ma resta
l'unica Expo cancellata per una guerra; caso raro di un intero quartiere
(l'Eur) costruito per un evento che non si terrà. Dopo la Seconda guerra
mondiale il filone prosegue ma deve correggere il tiro: l'Expo rimane una vetrina
per promuovere il "marchio" di una nazione a condizione che il
contesto sia improntato alla comprensione tra i popoli, alla cooperazione, alla
pace. L'America post-kennedyana dà praticamente in appalto alla Walt Disney
tutta l'Expo di New York del 1964, che adotta come slogan "It's a small
world" (il mondo è piccolo), il tema musicale che tuttora si può ascoltare
nel parco tecnologico di Epcot-Disneyworld a Orlando, in Florida. Di nuovo
segno dei tempi, le Expo possono perfino favorire i primi passi del disgelo
Est-Ovest (Montréal 1967, Osaka 1970). La Spagna nel 1992 a Siviglia celebra la
sua appartenenza all'Unione europea, in tempi in cui questa destava un
entusiasmo generale.
Un caso particolare — quasi un
ritorno alle origini — è Shanghai 2010. Visitata da settantatrè milioni di
persone, un record nella storia di questi eventi, Shanghai è stata a suo modo
una riedizione del "feticismo" di cui parlava Benjamin: nel senso che
è servita a presentare soprattutto a decine di milioni di cinesi delle province
i fasti della globalizzazione e della modernità. Un altro aspetto di Shanghai
che invece ci riporta a vicende più attuali: si tratta dell'ultimo grande
evento globale organizzato dalla Cina sotto il potere di Hu Jintao, e quando
era ancora forte il "clan shanghainese" del predecessore Jiang Zemin.
Tutti e due investiti dall'offensiva del successore, l'attuale presidente Xi
Jinping. Che s'installa al comando nel 2012, lancia una serie di inchieste
sulla corruzione, e smantella pezzo dopo pezzo le correnti avversarie del
Partito comunista.
Shanghai è rappresentativa anche
per il vento del Terzo millennio che soffia su tutte le Expo, Milano inclusa.
Da una parte c'è l'austerity: dal 2000 (Hannover) in poi molti governi
cominciano a mostrare riluttanza verso i costi elevati. Gli Stati Uniti aprono
la strada nel delegare a sponsor privati la loro rappresentanza: tant'è che sia
a Shanghai sia a Milano la partecipazione Usa è stata in forse fino all'ultimo,
perché il Dipartimento di Stato ormai si limita a fare da coordinatore dei
finanziatori privati. Sul fronte delle idee in tutte le Expo del nuovo
millennio, da Hannover ad Aichi (Giappone), da Shanghai a Milano, la
sostenibilità diventa il tema dominante. La tecnologia di fronte alla sfida di
salvare un pianeta in pericolo grave: un problema che i visitatori del Crystal
Palace nel 1851 avrebbero faticato a immaginare.
Pubblicato da la Repubblica il 12 aprile 2015
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