POSTATO DAL PROF DI ITALIANO:
Autostrade
senza incidenti, aerei ben pilotati dal decollo all’atterraggio, applicazioni
che rilevano costantemente il nostro stato di salute o gestiscono il conto in
banca. L’intelligenza artificiale sta cambiando velocemente le nostre
abitudini. Il mondo non guidato da noi sarà davvero più sicuro?
La
macchina perfetta
di Federico Rampini
UN MONDO perfetto. Un mondo
sicuro. Un mondo senza di noi. È il paradosso dell'Intelligenza Artificiale, A.
I. nell'abbreviazione inglese. La nuova frontiera del progresso tecnologico è
già realtà. Eliminare gli incidenti aerei, o le ecatombi del weekend sulle
autostrade, è ormai possibile. Cancellando ogni interferenza umana, i pericoli
si riducono quasi a zero. Resta da decidere cosa fare di noi (dopo averci
salvati). Molto prima della strage del volo Germanwings, le compagnie aeree
avevano imboccato la strada che porta verso l'automazione. Gli ultimi dati
dimostrano che la mortalità da incidenti aerei è in costante declino: solo un
volo ogni 1,2 milioni fa un incidente. La probabilità di morire è pari a una
ogni 11 milioni. Questo grazie al poderoso flusso d'innovazioni che hanno
trasformato i jet in macchine semi-automatiche, governate dall'informatica.
Google, Apple, Tesla, sono in gara tra loro per applicare la stessa ricetta
alle automobili. Un mese fa raccontavo su queste pagine il test-drive che un ingegnere
di Apple mi ha fatto fare sull'autostrada 101 che attraversa la Silicon Valley.
Al volante di una Tesla elettrica dell'ultima generazione (prodotta
dall'azienda di Elon Musk che forse Apple sta per acquisire), il giovane guru
dell'informatica mi ha dato una dimostrazione di quel che saranno le auto del
futuro. Governate da A. I., l'intelligenza artificiale molto più affidabile
della nostra, renderanno finalmente innocue tutte le distrazioni. Saremo liberi
di telefonare, leggere le email, navigare su Internet, scaricare video,
lavorare e divertirci. Al pilotaggio ci penseranno loro, mantenendo sempre la
distanza di sicurezza da tutte le altre vetture, con cui dialogheranno in tempo
reale grazie al flusso istantaneo di Big Data e all'armoniosa sintonia tra i
loro sensori elettronici. Avvisteranno rallentamenti e ingorghi con decine di
chilometri di anticipo. Ci culleranno dolcemente fino alla destinazione finale
e salvando migliaia di vite che oggi sono il bilancio dei nostri errori. Altro
che effetto-Uber sul mercato del lavoro, però: intere categorie e mestieri, dai
tassisti ai camionisti, saranno minacciate di estinzione?
La sfida dell'intelligenza
artificiale è proprio questa. A un certo punto il dilemma finale sarà
stringente: salvare vite umane, o salvare posti di lavoro? Difenderci come i
luddisti della rivoluzione industriale inglese — che davano l'assalto ai telai
meccanici — o arrenderci alla disoccupazione di massa, come prezzo per un mondo
migliore? L'elenco delle professioni minacciate è molto più lungo di quanto si
pensi. L'automazione nelle fabbriche avanza perfino in Cina: la Repubblica
Popolare rivaleggia con Stati Uniti e Giappone per gli investimenti nella
robotica, pur avendo ancora tanta manodopera a buon mercato. E intanto si
moltiplicano le categorie dei colletti bianchi assediate. In America, se i
bancari allo sportello sono pagati al salario minimo come i dipendenti dei fast
food — circa 9,5 dollari all'ora — la colpa è dei robot: quasi ogni operazione
bancaria può essere fatta all'Atm (Bancomat), o meglio con le app sul proprio
smartphone. Ma c'è anche l'altro lato della medaglia: la rivoluzione
tecnologica è la stessa destinata a creare più posti di lavoro. Già oggi negli
Usa l'aumento del tasso di occupazione nelle "professioni Stem"
(science, technology, engineering e math) segna un + 17%.
Google è ormai il vero medico di
famiglia degli americani: appena hanno qualche sintomo di malattia vanno a
farsi l'autodiagnosi online, attraverso il motore di ricerca scorrono le
enciclopedie mediche in Rete. Dal canto suo, Apple ha appena lanciato l'iWatch:
tra le altre funzioni, l'orologio da polso è il nuovo medico incollato al
nostro corpo. Oggi sono più di 100 mila le app dedicate alla salute: tra le
ultime presentate Hearth Health Meter, per prevenire i problemi cardiaci.
Chiunque creda di appartenere a una professione protetta dalla concorrenza di
A. I., ha un eccesso di presunzione o un deficit di fantasia.
"Rise of the machines",
l'ascesa delle macchine, è il titolo con cui il Financial Times ha passato in
rassegna tutti gli ultimi saggi usciti in America che trattano di questo. Sono
tanti. Gli autori scoprono le carte fin dagli slogan di copertina. C'è chi
scrive su "L'invenzione che sarà l'ultima, e segnerà la fine dell'era
umana" (James Barrat). C'è chi evoca "L'eclisse dell'Uomo"
(Charles Rubin). Chi descrive l'arrivo di macchine "Smarter Than Us",
più intelligenti di noi (Stuart Armstrong). E affidabili. Non soggette a crisi
depressive, gelosie tra colleghi, rancori, vendette, sabotaggi.
Già da molto tempo, non siamo più
noi a decidere fin dove deve spingersi l'automazione: è la logica del profitto
che sposta la frontiera sempre più avanti. La vera questione ormai è un'altra.
Fino a quando saremo noi a controllare le macchine, e quando cominceranno a
riprodursi da sole, mettendoci in un angolo, per diminuire la nostra nocività?
Il vero dibattito tra gli scienziati è ormai su questo secondo tema. In
California ne è nata un'università e una corrente di pensiero (alcuni la
definirebbero una religione), quella della Singularity. Il precursore storico
fu John von Neumann nel 1958, il suo teorico più autorevole oggi è Ray
Kurzweil, non a caso un super-consulente di Google. Nella definizione di
Wikipedia, la Singularity è l'ipotesi secondo cui l'accelerazione del progresso
tecnologico diventa esponenziale, irrefrenabile e incontrollabile, fino al
momento in cui «l'intelligenza artificiale supera la capacità umana di
comprenderla e controllarla, operando così un radicale mutamento di civiltà».
Come sempre, la grande
letteratura ha immaginato questi problemi molto prima che diventassero attuali.
Il computer Hal di 2001 Odissea nello Spazio vuole uccidere gli astronauti
perché sa che solo lui può portare a termine compiutamente la missione. Isaac
Asimov fu il primo nel 1950 a
concepire la necessità di un codice etico dei robot. Oggi è inquietante
scorrere l'elenco di luminari della scienza e di grandi imprenditori che
concordano nel denunciare A. I. come un pericolo per il genere umano: si va da
Stephen Hawking a Bill Gates, dal fondatore di Skype a quello di Tesla. Il
punto di non-ritorno, sarà quando i super-computer cominceranno a progettare
altri super-computer, inaugurando l'era della loro riproduzione autonoma?
Quand'anche volessero rimanere al nostro servizio, è possibile che
"interpretino" la missione da noi affidatagli arrivando a conseguenze
indesiderate? Stuart Armstrong del Future of Humanity Institute immagina i
possibili malintesi tra "noi" e "loro". Dite all'intelligenza
artificiale di debellare ogni malattia contagiosa, e potrebbe eliminare il
genere umano: missione compiuta. Chiedetele di aumentare subito il Pil degli
Stati Uniti, e potrebbe radere al suolo Los Angeles provocando un boom
d'investimenti per la ricostruzione. Il pericolo maggiore, ci avverte il
filosofo Stephen Cave (autore di Immortality) sul Financial Times, è che tutte
le ricerche su A. I. sono "spinte o da interessi finanziari, oppure da
progetti militari". In altri termini, le risorse a disposizione sono
immense. E il bene dell'umanità non figura in cima agli obiettivi perseguiti.
(pubblicato da la Repubblica il 30 marzo 2015)
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