domenica 22 febbraio 2015

Onore all'America

POSTATO DA ENRICO P.

Onore all'America e a George Washington poiché oggi è il suo COMPLEANNO! 
George Washington è nato a Bridges Creek il 22 febbraio 1732 ed è morto a Mount Vernon il 14 dicembre 1799. E' stato un politico e militare statunitense. Fu comandante in capo dell'Esercito continentale durante tutta la guerra di indipendenza americana (17751783) ed è divenuto in seguito il primo Presidente degli Stati Uniti d'America (1789 - 1797). È considerato uno dei grandi padri fondatori della nazione, ed il suo volto è ritratto sul Monte Rushmore, insieme a quello di Abramo LincolnThomas Jefferson e Theodore Roosevelt


Il futuro sarà pieno di droni



POSTATO DAL PROF. DI ITALIANO R.S.

Anche se un po’ lungo e complesso, leggete questo bell’articolo sul futuro prossimo venturo. Per facilitarne la lettura, ho evidenziato in verde alcune parole di cui trovate a fine articolo la spiegazione, mentre delle parole evidenziate in giallo chiedo a voi di cercare autonomamente il significato su un dizionario.

Mondo drone: istruzioni per l’uso
di Riccardo Staglianò


RENO (Nevada) – Qui c’è una città intera che aspetta l’autorizzazione al decollo. Le aziende, l’università, la gente al bar. Il sindaco e anche il governatore: scalpitano tutti. Basta che l’autorità federale per l’aviazione (Faa) dia il via libera ai voli a scopo commerciale e la metamorfosi avrà ufficialmente inizio. Perché Reno, il lato b di Las Vegas, la sorella povera del gioco d’azzardo americano, per risorgere dalla crisi sta puntando tutto sulla tecnologia. Vuole diventare la Detroit dei droni, anche se gli addetti ai lavori scongiurano di non chiamarli così. «Uav, unmanned aerial vehicle, aerei senza pilota, è molto meglio, no?» suggerisce contro ogni evidenza Mike Kazmierski, uno dei principali artefici della transizione, mentre ci sediamo al tavolo di Biscotti’s, dentro a quel residuato della old economy che è il casinò Peppermill, circonfuso da neon fucsia e con un colpo d’occhio sulla piscina riscaldata all’aperto dove, in pieno inverno, turisti extraterrestri e prevalentemente obesi sembrano divertirsi da morire. E così la rivoluzione diventa uno scioglilingua per esorcizzare ogni apparentamento con le gesta militari degli oggetti volanti che iniziano con la D. «Hanno una cattiva reputazione» chiarisce il mio ospite, sguardo di ghiaccio e naso da pugile, ex colonnello nella Guerra del Golfo, ora a capo dello sviluppo economico cittadino, «mentre qui lavoriamo ad apparecchi che salveranno vite, aiuteranno la ricerca scientifica e creeranno tanti posti di lavoro». Perché il Nevada è stato designato, in teoria, come uno dei sei siti per il collaudo di queste creature dell’aria. L’ultimo pezzetto mancante, in pratica, è che la Faa stabilisca come dovranno volare per evitare incresciose collisioni con aerei di linea o rovinose cadute sulla testa dei passanti. Mesi, settimane, giorni? Il conto alla rovescia lo vedi scorrere negli occhi di imprenditori tanto motivati quanto frustrati. Basta che l’agenzia federale dica soltanto una parola e gli Uav saranno salvati.
In gioco, ovviamente, non c’è tanto la fortunata riconversione industriale di una cittadina sperduta nel deserto. Quanto l’anteprima mondiale di una tendenza incipiente: asfaltare il cielo. Ovvero, aprire infiniti nuovi corridoi aerei che promettono di ridefinire il concetto di trasporto. Per capire almeno l’entità economica della trasformazione conviene sfogliare un recente rapporto commissionato dalla Association for Unmanned Vehicle Systems International. Il mercato dei droni commerciali, si legge, potrebbe creare solo negli Stati Uniti 70mila nuovi posti di lavoro nei primi tre anni di attività e arrivare a valere oltre 80 miliardi di dollari entro i prossimi dieci anni. Magari sono ottimisti. Di certo sono di parte. Un dato di fatto è che al Consumer Electronic Show, la grande fiera tecnologica che si è da poco tenuta a Las Vegas, stavolta c’erano sedici produttori di droni, il quadruplo dell’anno scorso. La rassegna stampa sul tema cresce esponenzialmente. C’è il drone-edilizio della giapponese Komatsu in grado di fare rilievi sui terreni dove posare le fondamenta di un palazzo. Alla vecchia maniera servivano due persone per una settimana, mentre adesso un aeroplanino fa tutto per conto suo in una, due ore al massimo. C’è il drone-biologo della PrecisionHawk che prende campioni d’acqua nei fiumi e li analizza in cerca di agenti patogeni. C’è il drone-umanitario della Matternet che consegna vaccini nei più remoti villaggi africani. Il drone-giornalista che, per conto della Cnn, fa scenografiche riprese dall’alto. Lo SkySeer drone-poliziotto che a Los Angeles aiuta gli agenti a rintracciare i dispersi. Ma anche il drone-spacciatore che si è schiantato nel parcheggio di un supermercato a San Ysidro, a pochi chilometri dal confine messicano, con il suo carico di tre chili di metanfetamina destinati al mercato americano. Tutto questo solo per dare un assaggio molto parziale di quanto e come se ne è parlato solo nell’ultimo mese. Lasciando da parte per il momento l’uso militare.
Torniamo quindi a Reno, città-laboratorio di un imminente futuro globale. Dalla quale trarre un paio di lezioni di ordine generale su come gestire brillantemente il presente in tempo di crisi. «Noi non siamo Las Vegas» esordisce il colonnello Kazmierski, che mi ha convocato alle 7.30 («A che ora mi sveglio? In genere alle 5.36») per portarmi a vedere un aeroporto candidato ai test, «la crisi e la concorrenza dei casinò nelle riserve indiane ha ridotto l’industria del gambling all’8 per cento del nostro Pil. Dovevamo inventarci dell’altro». E così come un manager che ha interiorizzato l’arte della guerra di Sun Tzu, ha trasformato la debolezza (una zona desertica) in una forza (un grande spazio accogliente). Prima sono arrivati i data center, gli enormi capannoni industriali che ospitano le migliaia di computer che fanno funzionare Amazon, Apple e altre superpotenze internettiane. Poi Tesla, la Mercedes delle auto elettriche, ha annunciato che aprirà qui la più grande fabbrica al mondo di batterie al litio. E poi, ovviamente, i droni. «Vede la curva della disoccupazione?» dice indicando il miracolo che le slide sanciscono. In tre anni sono passati dal 14,2 al 6,4 per cento. E Obama non l’ha ancora reclutata? «No, ma ho ricevuto qualche altra chiamata» concede, rilassando per un attimo la mandibola d’acciaio. Non è successo per caso. «Abbiamo lavorato molto con le agenzie che scelgono i siti industriali» racconta. Hanno spiegato che si trovano a dieci chilometri dalla California, a quattro ore d’auto dalla Silicon Valley, con la differenza che qui non ci sono praticamente tasse e un ingegnere costa circa la metà che nella Bay Area. Ed è tutto immensamente più facile.
Se c’è uno che lo può testimoniare è Matt Sweeny. Ventiseienne australiano, ha studiato filosofia prima di andare a imparare il cinese a Pechino. Lì, davanti alla frustrazione di non poter avere una pizza decente nel dormitorio dove alloggiava, gli è venuta l’idea che un drone avrebbe risolto il problema. Segue studio disperatissimo su manuali cartacei e tutorial di internet che sfocia nell’assemblaggio da autodidatta dei primi velivoli. Poi, quando fonda Flirtey e annuncia due mesi prima di Amazon che è in grado di consegnare per via aerea merci a domicilio, si trasferisce nella Silicon Valley in cerca di finanziatori. Però lì è uno dei tanti. Così prova a Reno e scopre un altro mondo: l’università gli mette a disposizione laboratori (in cambio della promessa di assumere poi studenti locali), il sindaco gli offre affitti scontati (con l’acquolina in bocca per l’inevitabile indotto) e tutti si mostrano stupefacentemente collaborativi. […] Resta. «Sono reduce da 22 incontri con venture capitalists californiani negli ultimi nove giorni» dice eccitato, mentre nella caffetteria dell’università tira fuori da una custodia un esacottero, un drone con sei rotori, che può trasportare per 16 chilometri un peso da due chili e mezzo. «Se un motore di questi sei si guasta non ce ne accorgiamo neanche. Se il gps che lo fa volare in automatico va fuori uso ci sono i comandi manuali. Se una batteria va in tilt c’è quella di scorta» elenca fiero. La parola chiave è ridondanza: due (o più) di tutto, contro ogni imprevisto. Ma dove li testate senza il permesso della Faa? «Intanto al chiuso. Nei mesi scorsi in Gran Bretagna, dove i regolamenti sono più elastici. E a breve cominceremo servizi commerciali nella logistica, nei fast food e nel commercio elettronico in Nuova Zelanda, dove la legislazione è più avanzata». Quanto al futuro, Sweeny non ha dubbi: «Non solo saranno il metodo più rapido di consegna, ma anche il più economico. Giusto il costo di manutenzione e ricarica delle batterie».
Piccola pausa esplicativa. Quanto alla legge, oggi negli Stati Uniti i privati possono far volare piccoli droni, non a caso uno dei più concupiti regali tecnologici dell’ultimo Natale. Devono solo stare sotto i 120 metri d’altitudine, a distanza di cinque miglia dagli aeroporti e sempre a vista dell’operatore. Se uno invece vuole usarli a fini commerciali, per fare foto, ricognizioni o altro, non potrebbe farlo – ma le cose vanno diversamente – se non dietro specifica, complessa e temporanea autorizzazione della Faa. In attesa del regolamento che doveva essere pronto nel 2012 e finalmente è dato in arrivo, salvo imprevisti. Quanto alla tassonomia, i droni non potrebbero essere più diversi. Si va dal popolarissimo e Made in China Phantom a quattro rotori, tre chili di plastica e circuiti in vendita a partire da 600 dollari su Amazon, come quello che ha provocato un catastrofico danno d’immagine alla categoria schiantandosi nel giardino della Casa Bianca, ai 500 mila dollari di un bestione anfibio della Drone America, altra azienda con sede qui, che all’indomani dell’uragano Katrina ha consegnato 16 provvidenziali scialuppe agli alluvionati. Per non dire dei famigerati Reaper, lunghi 11 metri con apertura alare di 20, che stanno salassando il bilancio del Pentagono a colpi di 10 milioni di dollari a esemplare.
Ryan McMaster fa del suo meglio per non lasciarsi deprimere dalla vacatio legis. Me lo presenta Shyla Pheasant, ex reginetta del rodeo e oggi entusiasta («Reno cresce a vista d’occhio e il meglio ha da venire!») dipendente dell’Autorità per lo sviluppo economico diretta da Kazmierski. Ingegnere trentenne, i droni se li costruisce da solo con tubi di fibra di carbonio, chip comprati sul web, pannelli di controllo tedeschi e telecamere giapponesi. E li usa, con apparente soddisfazione anche economica (glissando sulle autorizzazioni), per fare ogni genere di ripresa aerea: «Per chi vuole girare film, video pubblicitari ma anche ricognizioni per riparare un tetto o una linea elettrica». Non vola mai sopra i centri abitati, giura, e anche durante la prova che ci dà in un piccolo parco cittadino tiene a distanza i bambini che subito accorrono («Non tocco più alcol da quando li piloto»). A pochi chilometri di distanza, nella zona preindustriale, c’è la sede di Drone America. Mike Richards, un inglese cinquantenne, è nel settore da una dozzina d’anni e lamenta una certa improvvisazione: «Ormai chiunque sappia fare lo spelling di Uav ha cominciato a farli». Loro lavorano con gli sceriffi, con grossi gruppi umanitari nei Paesi del Terzo mondo, anche con la Difesa. Ma la loro expertise è stata accumulata in passato, quando nell’indifferenza generale i droni si collaudavano all’aria aperta. Quanto all’attendismo della Faa, capisce, ma fino a un certo punto: «L’incolumità delle persone deve essere prioritaria. Ma se stiamo troppo tempo bloccati questo Paese potrebbe perdere una straordinaria opportunità economica». Come dimostra il caso di Flirtey che, non volendo bruciare il proprio vantaggio tecnologico, mantiene la sede qui ma sposta i collaudi in Oceania.
«È assurdo» commenta Mike Dikun, il responsabile dell’aeroporto privato di Stead, a pochi chilometri dal centro. «La nomina a sito di prova significava che, in strutture sicure come la nostra, si facevano i collaudi per scrivere regole su come i droni avrebbero potuto volare senza mettere in pericolo né l’aviazione civile né le persone a terra. E invece…». Mi mostra la rampa per i Chessna con cui qualche buona decina di residenti si spostano da uno Stato all’altro. E poi lo spazio enorme, a ridosso di colline che proteggono dai venti, riservato ai droni. E inutilizzato. Si accalora: «Tra un Phantom, più leggero di un’oca, e un Predator, c’è una differenza abissale e non ha senso trattarli nello stesso modo». Una cosa è poi la campagna, tutt’altra la città. «La nostra è una zona scarsissimamente abitata, desertica. Non a caso abbiamo ospitato così tante basi aeree e, oggi, anche i test dell’auto senza pilota di Google. I rischi per le persone sono bassissimi. Diverso invece fare consegne nei cieli congestionati delle città». Ovvero l’annuncio Amazon di un anno fa, giudicato da molti un eccellente colpo di pubbliche relazioni. Troppi ostacoli, troppe variabili da tenere di conto. Solo Sweeny giura di crederci: «Saremo i primi a farle. Amazon è agguerrita, ma i suoi concorrenti non si rivolgeranno mai a loro per le consegne. E qui entra in scena un fornitore indipendente come noi».
Nessun dettaglio è stato tralasciato. Mark Sharp, dopo aver pilotato per tre anni Predator in Iraq e Afghanistan, si è riciclato come insegnante. Insegna alla prima classe di universitari del Truckee Meadows Community College quel che serve sapere sui droni. Dice anche che «non occorre alcuna esperienza» per iscriversi al corso e che, dalle turbine ai flight controller, spiega da zero tutto lui. È l’America, bellezza! Dove un laureato in filologia romanza va senza scomporsi a lavorare per Goldman Sachs, alla faccia della propedeuticità. Lo stesso popolo, distante anni luce da come funzioniamo noi, che questa verginità programmatica rende così ben disposto verso ogni novità. La medesima attitudine nihil impossibile che fa dire all’ex colonnello dei marines Warren Rapp, oggi insediato al Nevada Advanced Autonomous Systems Innovation Center, di aver già trovato i soldi per far recintare da ogni lato, con una specie di super rete d’acciaio, l’equivalente di una campo da football dove i droni potranno finalmente essere collaudati all’aperto, nelle more delle decisioni federali.
Per una volta però anche i future friendly americani hanno dei dubbi. Solo il 21 per cento, constata un sondaggio commissionato dall’Associated Press, è favorevole ai droni commerciali. Ci sono le preoccupazioni della privacy, per quest’occhio di Medusa telematico sempre potenzialmente spalancato sulle vite degli altri. Ma pesa anche la reputazione bellica dei fratelli cattivi di queste macchine. Quelli che, con paradosso non raro, sotto il repubblicano e guerrafondaio Bush avevano colpito 49 volte (2004-2008) e con il mite e democratico Obama 409 solo in Pakistan (2009-2014). La loro presunta chirurgicità si è infranta davanti all’evidenza dei bollettini di guerra che scontano una kill zone di 15 metri dei missili Hellfire sganciati dai Predator. Nessuno, detto altrimenti, in quel raggio sopravvive. La prima stagione della serie tv Homeland si snodava tutta intorno agli effetti a cascata di un bombardamento in cui muoiono civili innocenti. Il filmone Interstellar inizia con un lungo e struggente inseguimento di un drone che si è perduto. L’opinione pubblica sembra dire, parafrasando Laocoonte quando mette in guardia dal cavallo di Troia, «temo i droni anche quando portano doni». Negli ultimi sei mesi dell’anno scorso sono stati denunciati venticinque casi di quasi collisione tra piccoli droni a aerei in atterraggio o decollo. Uno è successo al LaGuardia di New York quando il Republic Airlines Flight 6230 è stato «quasi colpito» da un velivolo amatoriale che volava oltre mille piedi, ovvero dieci volte l’altezza consentita. Molto più banalmente a dicembre, in un ristorante della catena Tgif a Brooklyn, un’elica di un drone ha tagliato un pezzo di naso a un fotografo che doveva immortalarlo. Ultimo viene il doppio disastro della Casa Bianca; inteso come conseguenza dell’imperizia alcolica di un pilota amatoriale e come colossale fiasco del sistema di protezione del presidente. In entrambi i casi, pessima pubblicità. Il New York Times ha affidato a una delle sue firme tecnologiche il compito di scagionarli. Titolo: «Diamo all’industria dei droni lo spazio per innovare». Tra gli argomenti un paragone con internet, nata per fini militari e poi diventata la formidabile piattaforma multiuso che conosciamo. Anche i droni, sosteneva un intervistato, potrebbero seguire la stessa traiettoria e stupirci con applicazioni che oggi, semplicemente, non sappiamo immaginare. Aprite i cieli, era il senso, e i robot volanti ci sorprenderanno. È il mantra che si ripetono a Reno ogni giorno. Quando il semaforo aereo diventerà verde, saranno i primi a scattare. E, davanti al dispiegarsi di questo futuro possibile, le slot machines saranno consegnate alla storia come modernariato meccanico, fosforescente, tendente al kitsch.

Pubblicato su il Venerdì di Repubblica il 20 febbraio 2015

Spiegazione dei termini evidenziati in verde:

Reno = città del Nevada (uno dei 50 stati che formano, assieme al Distretto di Colombia, gli Stati Uniti d’America), rivale della più celebre Las Vegas che sorge a pochi chilometri di distanza
Lato b = una volta i dischi venivano stampati su dei supporti in vinile a due facciate, il lato a e il lato b; i dischi a 45 giri contenevano solitamente 2 sole canzoni, di cui quella che si supponeva di maggior successo sul lato a, mentre quella “secondaria” sul lato b. Nell’articolo lato b significa appunto “secondario, di minore importanza (vera o presunta)”
Detroit = città del Michigan (un altro degli stati degli USA) nota per essere la capitale dell’industria automobilistica statunitense
Guerra del Golfo = guerra di una coalizione di nazioni guidate dagli USA contro l’Iraq; in realtà ce ne sono state due, una tra il 1990 e il 1991, un’altra tra il 2003 e il 2011
Gambling = precisamente è il gioco d’azzardo, praticato illegalmente, ma qui ci si riferisce ai giochi legali che si praticano nei casinò per i quali è famoso il Nevada
Silicon Valley = è la parte meridionale dell’area metropolitana attorno a San Francisco (in California, un altro stato degli USA), famosa per la forte presenza di industrie di computer e affini
Bay Area = è la baia su cui sorge San Francisco (Questo pezzo dell’articolo ti fa capire come negli USA le leggi e gli stipendi e le regole in generale siano diversi da stato a stato)
Venture capitalists = investitori di capitale (cioè di denaro proprio) in attività rischiose ma promettenti per il futuro
Casa Bianca = la residenza a Washington del Presidente degli Stati Uniti
Katrina = è l’uragano che nel 2005 ha devastato le coste del Golfo del Messico, provocando enorme distruzione e la morte di più di 1.800 persone, in gran parte nella città di New Orleans
Vacatio legis = espressione latina che significa mancanza di una legge in un determinato settore
Difesa = il ministero della difesa che si occupa delle forze armate e delle guerre e che negli USA viene anche chiamato Pentagono, poiché ha sede in un edificio di forma pentagonale
Filologia romanza = è la scienza che studia le lingue neolatine e i testi scritti in tali lingue, soprattutto nei primi secoli in cui sono state usate
Nihil impossibile = espressione latina che significa “niente è impossibile (per chi è mosso da una forte volontà)”
Medusa = personaggio della mitologia greca, che ha la capacità di pietrificare chiunque incroci il suo sguardo
Chirurgicità = neologismo che indica la capacità di fare qualcosa con estrema precisione, appunto come un chirurgo che quando opera, taglia (di solito!) nel punto giusto
Mantra = nelle religioni dell’India (tra cui Induismo e Buddismo) è un’espressione sacra, una preghiera, una formula magica tipica della meditazione orientale; banalmente – come in questo articolo – il termine viene usato per indicare qualcosa che qualcuno si augura ripetendoselo in continuazione (una specie di scongiuro, in pratica)






sabato 21 febbraio 2015

La mafia uccide solo d'estate

Credo che a nome della classe sarebbe bello farvi conoscere questo film che in classe è stato visto!
La mafia uccide solo d'estate è un film del 2013 diretto e interpretato da Pierfrancesco Diliberto, più noto come Pif e scritto da lui con Michele Astori e Marco Martani.
È una commedia drammatica che attraverso i ricordi d'infanzia del protagonista ricostruisce, in toni spesso paradossali e ironici, una sanguinosa stagione dell'attività criminale di Cosa nostra a Palermo dagli anni ottanta fino ai primi anni novanta.
Trama
« - Ma la mafia ucciderà anche noi?
- Tranquillo. Ora siamo d'inverno. La mafia uccide solo d'estate. »
(Il padre al piccolo Arturo, prima di andare a dormire)
Il film racconta la vicenda di Arturo, giovane giornalista che racconta in maniera del tutto originale dei fatti di mafia che hanno punteggiato la sua vita fin dall'infanzia ed esplosi nella sanguinosa stagione stragista a partire dagli anni ottanta fino al 1992.

Arturo fu concepito il giorno della strage di viale Lazio: i genitori, appena convolati a nozze, vivevano nello stesso stabile in cui avvenne la strage mafiosa. La prima parola detta dal piccolo Arturo fu mafia, pronunciata in riferimento a fra Giacinto, un prete opportunista con stretti legami nei confronti dei mafiosi. Arturo ha la capacità di riconoscere chi fa parte di Cosa nostra e chi no: si spaventa incontrando il boss Salvatore Riina all'ospedale, pur senza conoscerlo. Fin dalle elementari, si innamora della bella Flora, figlia di un ricco banchiere, che vive nello stesso stabile del magistrato Rocco Chinnici. Arturo non riesce a rivelarle i suoi sentimenti, ma rimane estasiato quando vede in televisione un'intervista di Maurizio Costanzo al presidente del consiglio Giulio Andreotti, che rivela di essersi dichiarato alla moglie al cimitero. Andreotti diventa un eroe e un modello da seguire per Arturo, che lo imita e ritaglia le sue fotografie dai giornali per attaccarle ad un quaderno. Inoltre, nella sua stanza è presente un enorme poster dell'onorevole, che si porta dietro anche durante le vacanze. Nello stesso palazzo dove abita il ragazzo vive anche Francesco, un giornalista che per il suo impegno contro la mafia viene obbligato dal direttore del giornale a curare le rubriche sportive. Francesco intuisce le capacità di Arturo e lo sprona nel suo sogno di diventare giornalista. Alle vicende personali del ragazzo si alternano le stragi mafiose di quegli anni: muoiono Boris Giuliano, incontrato tutti i giorni dal ragazzo al bar, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il quale aveva concesso un'intervista ad Arturo, vincitore di un concorso per giovani giornalisti, e Rocco Chinnici, ucciso in un attentato il giorno stesso della partenza di Flora e della famiglia per la Svizzera.

Anni dopo, Arturo è assunto come pianista ed assistente presso TV Palermo, nella trasmissione Bonsuar, il cui presentatore è Jean Pierre. Durante il primo giorno di lavoro, è ospite nella trasmissione di Jean Pierre Salvo Lima, onorevole della DC, la cui assistente è proprio Flora. Arturo, stupito, dimentica le note della sigla e viene allontanato dal programma. Viene allora assunto come inviato speciale per la campagna elettorale dei democristiani. A causa di un discorso da scrivere per Lima, litiga con Flora e viene cacciato, ma viene di nuovo assunto da Jean Pierre. Nel frattempo, assiste insieme al presentatore all'assassinio di Lima, accusato di non aver collaborato a scarcerare alcuni mafiosi, ed è uno dei primi a prestare soccorso. Nel frattempo, grazie al maxi-processo condotto da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vengono arrestati numerosi membri di Cosa nostra. Poco tempo dopo, i due magistrati vengono uccisi nelle stragi di Capaci e di via d'Amelio. Dopo questi attentati, il popolo palermitano, inizialmente omertoso, capisce le reali intenzioni della mafia e scende in piazza a protestare. Arturo e Flora, superati i rancori, si fidanzano e dalla loro unione nasce un bambino, che verrà educato dal padre a riconoscere il male e a combatterlo.
Curiosità
  • Il titolo del film è, per una banale coincidenza, molto simile a quello di un libro di Angelino Alfano intitolato, appunto, La mafia uccide d'estate ed edito da Mondadori.
In una scena del film, il boss Bagarella è intento a ritagliare una foto di Ivana Spagna da un giornale degli anni 80 mentre intona una personale versione di Easy Lady. La scena, pur se ambientata nel 1982 (quindi anacronisticamente prima della pubblicazione del brano nel 1986), si riferisce a un fatto realmente accaduto, di cui si è avuta notizia nel 1996, ovvero che il boss fosse tanto invaghito dalla cantante da aver pensato di farla rapire.
BE da non scordare che non TUTTI i siciliani sono mafiosi!
adesso sapete cosa fare!Al venditore più vicino (o biblioteca) a vedere il film!

Nutell...

Mister Nutell l'uomo che ha addolcito gli italiani

I suoi mitici vasetti alla crema di nocciola sono entrati non solo nella storia dolciaria, ma anche in quella del costume nazionale
Che mondo sarebbe senza Michele Ferrero? Ancora e sempre un mondo con la Nutell. Perché nessuno ne può fare a meno, dài, non mentire, mostra le dita (o meglio, il dito indice) della mano ancora reduci, intinte in quel dolcissimo inchiostro marrone che ci accompagna dall'infanzia.
È roba vera, prima in bicchiere floreale di cui si conservano cimeli e memorabilia, utilizzato per tenere felici i pupi e poi nel barattolo passato dal vetro alla plastica, ora addirittura con etichetta personalizzata, da tenere, come la palla di vetro con dentro la neve, sul comodino.
A sinistra, diceva cantando e canzonando Giorgio Gaber perché se la cioccolata svizzera è di destra, la Nutell è di sinistra. In questo caso diventa necessario il patto con il Nazareno, quello vero, Gesù Cristo che ci aiuti mentre la Nutell è come un blob che si avvicina, provoca, sfiora le labbra e poi approfitta della nostra ingordigia, delle nostre depressioni, della malinconia esistenziale, è l'assenzio dei nuovi secoli, è un viaggio lecito verso la massima soddisfazione, è il sollievo allo spleen della vita quotidiana, sempre meglio dell'aperitivo con il carciofo, sempre roba italiana.
Non c'è zona scoperta del mondo che non abbia posseduto e frequentato un barattolo, una monoporzione uso albergo trafugata durante il breakfast. La Nutell richiede la enne maiuscola, al riguardo ci fu un contenzioso paralinguistico con il Devoto Oli che, ahilui, ha inserito il marchio con la consonante minuscola. Nutell è presente nei testi di alcune canzoni, negli slogan pubblicitari, nei film, corti e d'autore.
La Nutell non si censura anzi è Lei a censurare, accadde con Michele Apicella, al secolo Nanni Moretti, titolo della pellicola Bianca . Moretti, completamente ignudo e solo nella cucina di casa, si avvicina al vaso alto metri uno, colmo di cioccolata da spalmare che ne nasconde le zone a rischio alla vista dello spettatore mentre Michele-Nanni spalma e lecca, spalma e mangia, in silenzio doveroso. Si narra che anche Alain Ducasse che sta a Masterchef come Dio alla religione, abbia nel suo ristorante, il Benoit a New York, un barattolo di chilogrammi cinque al quale attinga quando è in crisi di intuizioni gastronomiche. Secondo i dati forniti dall'Ocse ogni anno entrano in circuito quattrocentomila tonnellate di crema alla nocciola e cioccolato, forse visibili dalla Samantha Cristoforetti a meno che a bordo della sua stazione orbitante i kazaki di Bajkonur non abbiano messo nella cambusa della Soyuz la riserva necessaria. E Nutell sarà, dunque, compagna clandestina di notti tragiche, inseguendo il sonno, lei nascosta, dietro il formaggio, nella cella del frigorifero, pronta a strizzarci l'occhio, bastarda dentro e fuori, dolcissima come si deve, con cucchiaino o senza, con dito indice o senza, con pane raffermo o, atrocemente, spalmata su una pizza in bianco, isola del tesoro dei bambini, degli adolescenti, di uomini e donne di qualunque età, partito trasversale che unisce ma non riunisce perché va presa preferibilmente in solitudine, lontano dal clamore. Resiste a numerosi tentativi di imitazione, come la Settimana enigmistica , resta ferma nel secolo, invidiata. Nel gennaio scorso a Valenciennes, città di Francia, una coppia si è presentata all'anagrafe del Comune volendo registrare il nome della propria neonata: «Nutell».
L'addetto, in evidente imbarazzo diabetico, ha dirottato la pratica e il tribunale della famiglia ha respinto la richiesta, così la petite fille porta il nome di «Ella». Roba tipica dei cocoricò francesi, ai quali gli girano di non averla inventata loro, docenti saccenti du chocolat . Ma l'abbiamo inventata noi, l'ha inventata una famiglia piemontese nei favolosi anni Sessanta.
Su Michele Ferrero la terra sia lieve. E dolce, dolce, dolce.
Come al solito le ''a'' cancellate.
Ora godetevi la nutell,Risultati immagini per Nutell

venerdì 20 febbraio 2015

NON dovrà mai più succedere...

POSTATO DA ALESSANDRO


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é passato un bel po' di tempo dall'accaduto, ma ritengo opportuno che in questo blog ci sia!!!
L'attentato alla rivista Charlie Hebdo e a chi ci lavoraba è una cosa che ci fa riflettere su molte cose. Ma anche ci rinforza moralmente... noi ragazzi (e non solo) possiamo e dobbiamo esprimere quello che abbiamo dentro di noi, non dobbiamo avere paura delle conseguenze. Non possiamo tirarci indietro di fronte a niente.Ogni volta che "cadiamo", dobbiamo rialzarci e andare avanti. Finisco col dire: "Je suis Charlie".

giovedì 19 febbraio 2015

Carnevale a... Venezia!


POSTATO DA PIETRO
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Il carnevale a Venezia è particolare. A Venezia non ci sono macchine e nemeno strade. Ci sono calli e tanti ponti che attraversano il Canal Grande.  Invece dei carri allegorici
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che poi non riuscirebbero a circolare, ci sono le maschere. E' un festa che dura sui 15 giorni in cui è di buon auspicio indossare una maschera
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o un cappello
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o se si vuole un costume non rigorosamente ''veneziano''
e a volte senza nè cappelli nè maschere.
Ma parliamo più nel dettaglio di questo carnevale veneziano...
Il Carnevale di Venezia è uno dei più conosciuti ed apprezzati carnevali del mondo.
Le origini

Le sue origini sono antichissime: la prima testimonianza risale ad un documento del Doge Vitale Falier del 1094, dove si parla di divertimenti pubblici e nel quale il vocabolo Carnevale viene citato per la prima volta.

L'istituzione del Carnevale da parte delle oligarchie veneziane è generalmente attribuita alla necessità della Serenissima, al pari di quanto già avveniva nell'antica Roma (vedi panem et circenses), di concedere alla popolazione, e soprattutto ai ceti sociali più umili, un periodo dedicato interamente al divertimento e ai festeggiamenti, durante il quale i veneziani e i forestieri si riversavano in tutta la città a far festa con musiche e balli sfrenati.

Attraverso l'anonimato che garantivano maschere e costumi, si otteneva una sorta di livellamento di tutte le divisioni sociali ed era autorizzata persino la pubblica derisione delle autorità e dell'aristocrazia. Tali concessioni erano largamente tollerate e considerate un provvidenziale sfogo alle tensioni e ai malumori che si creavano inevitabilmente all'interno della Repubblica di Venezia, che poneva rigidi limiti su questioni come la morale comune e l'ordine pubblico dei suoi cittadini.

Il Carnevale antico
Il primo documento ufficiale che dichiara il Carnevale di Venezia una festa pubblica è un editto del 1296, quando il Senato della Repubblica dichiarò festivo il giorno precedente la Quaresima.

In quest'epoca, e per molti secoli che si succedettero, il Carnevale durava sei settimane, dal 26 dicembre al Mercoledì delle Ceneri, anche se i festeggiamenti talvolta venivano fatti cominciare già i primi giorni di ottobre.
Le maschere ed i costumi

I cittadini indossano maschere e costumi, è possibile celare totalmente la propria identità e si annulla in questo modo ogni forma di appartenenza personale a classi sociali, sesso, religione. Ognuno può stabilire atteggiamenti e comportamenti in base ai nuovi costumi ed alle mutate sembianze. Per questo motivo, il saluto che risuonava di continuo nell'atto di incrociare un nuovo "personaggio" era semplicemente Buongiorno signora maschera.

La partecipazione gioiosa e in incognito a questo rito di travestimento collettivo era, ed è tuttora, l'essenza stessa del Carnevale. Un periodo spensierato di liberazione dalle proprie abitudini quotidiane e da tutti i pregiudizi e maldicenze, anche nei propri confronti. Si faceva tutti parte di un grande palcoscenico mascherato, in cui attori e spettatori si fondevano in un unico ed immenso corteo di figure e colori.

Con l'usanza sempre più diffusa dei travestimenti per il Carnevale, a Venezia nacque dal nulla e si sviluppò gradualmente un vero e proprio commercio di maschere e costumi. A partire dal 1271, vi sono notizie di produzione di maschere, scuole e tecniche per la loro realizzazione. Cominciarono ad essere prodotti gli strumenti per la lavorazione specifica dei materiali quali argilla, cartapesta, gesso e garza. Dopo la fase di fabbricazione dei modelli, si terminava l'opera colorandola e arricchendola di particolari come disegni, ricami, perline, piumaggi e quant'altro. I cosiddetti mascareri, che divennero veri e propri artigiani realizzando maschere di fogge e fatture sempre più ricche e sofisticate, vennero riconosciuti ufficialmente come mestiere con uno statuto del 10 aprile 1436, conservato nell'Archivio di Stato di Venezia.

Uno dei travestimenti più comuni nel Carnevale antico, soprattutto a partire dal XVIII secolo, rimasto in voga ed indossato anche nel Carnevale moderno, è sicuramente la Baùta. Questa figura, prettamente veneziana ed indossata sia dagli uomini che dalle donne, è costituita da una particolare maschera bianca denominata larva sotto un tricorno nero e completata da un avvolgente mantello scuro chiamato tabarro. La bauta era utilizzata diffusamente durante il periodo del Carnevale, ma anche a teatro, in altre feste, negli incontri galanti ed ogni qualvolta si desiderasse la libertà di corteggiare od essere corteggiati, garantendosi reciprocamente il totale anonimato. A questo scopo la particolare forma della maschera sul volto assicurava la possibilità di bere e mangiare senza doverla togliere.

Un altro costume tipico di quei tempi era la Gnaga, semplice travestimento da donna per gli uomini, facile da realizzare e d'uso piuttosto comune. Era costituito da indumenti femminili di uso comune e da una maschera con le sembianze da gatta, accompagnati da una cesta al braccio che solitamente conteneva un gattino. Il personaggio si atteggiava da donnina popolana, emettendo suoni striduli e miagolii beffardi. Interpretava talvolta le vesti di balia, accompagnata da altri uomini a loro volta vestiti da bambini.

Molte donne invece, indossavano un travestimento chiamato Moretta, costituito da una piccola maschera di velluto scuro, indossata con un delicato cappellino e con degli indumenti e delle velature raffinate. La Moretta era un travestimento muto, poiché la maschera doveva reggersi sul volto tenendo in bocca un bottone interno (e per questo motivo chiamata anche servetta muta).
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