POSTATO DAL PROF. DI ITALIANO R.S.
Anche se un po’ lungo e complesso, leggete questo
bell’articolo sul futuro prossimo venturo. Per facilitarne la lettura, ho
evidenziato in verde alcune parole di cui trovate a fine articolo la
spiegazione, mentre delle parole evidenziate in giallo chiedo a voi di cercare
autonomamente il significato su un dizionario.
Mondo drone: istruzioni per l’uso
RENO (Nevada) – Qui c’è una città
intera che aspetta l’autorizzazione al decollo. Le aziende, l’università, la
gente al bar. Il sindaco e anche il governatore: scalpitano tutti. Basta che
l’autorità federale per l’aviazione (Faa) dia il via libera ai voli a scopo
commerciale e la metamorfosi avrà ufficialmente inizio. Perché Reno, il lato b di Las Vegas, la
sorella povera del gioco d’azzardo americano, per risorgere dalla crisi sta
puntando tutto sulla tecnologia. Vuole diventare la Detroit dei droni, anche se gli addetti ai
lavori scongiurano di non chiamarli così. «Uav, unmanned aerial vehicle, aerei senza pilota, è molto meglio, no?»
suggerisce contro ogni evidenza Mike Kazmierski, uno dei principali artefici
della transizione, mentre ci sediamo al tavolo di Biscotti’s, dentro a quel
residuato della old economy che è il casinò Peppermill, circonfuso da neon
fucsia e con un colpo d’occhio sulla piscina riscaldata all’aperto dove, in
pieno inverno, turisti extraterrestri e prevalentemente obesi sembrano
divertirsi da morire. E così la rivoluzione diventa uno scioglilingua per esorcizzare ogni apparentamento con le
gesta militari degli oggetti volanti che iniziano con la D. «Hanno una cattiva
reputazione» chiarisce il mio ospite, sguardo di ghiaccio e naso da pugile, ex
colonnello nella Guerra del
Golfo, ora a capo dello sviluppo economico cittadino, «mentre qui
lavoriamo ad apparecchi che salveranno vite, aiuteranno la ricerca scientifica
e creeranno tanti posti di lavoro». Perché il Nevada è stato designato, in
teoria, come uno dei sei siti per il collaudo di queste creature dell’aria.
L’ultimo pezzetto mancante, in pratica, è che la Faa stabilisca come dovranno
volare per evitare incresciose
collisioni con aerei di linea o rovinose cadute sulla testa dei passanti. Mesi,
settimane, giorni? Il conto alla rovescia lo vedi scorrere negli occhi di
imprenditori tanto motivati quanto frustrati. Basta che l’agenzia federale dica soltanto una parola
e gli Uav saranno salvati.
In gioco, ovviamente, non c’è
tanto la fortunata riconversione
industriale di una cittadina sperduta nel deserto. Quanto l’anteprima mondiale di
una tendenza incipiente:
asfaltare il cielo. Ovvero, aprire infiniti nuovi corridoi aerei che promettono
di ridefinire il concetto di trasporto. Per capire almeno l’entità economica
della trasformazione conviene sfogliare un recente rapporto commissionato dalla
Association for Unmanned Vehicle Systems International. Il mercato dei droni
commerciali, si legge, potrebbe creare solo negli Stati Uniti 70mila nuovi
posti di lavoro nei primi tre anni di attività e arrivare a valere oltre 80
miliardi di dollari entro i prossimi dieci anni. Magari sono ottimisti. Di
certo sono di parte. Un dato di fatto è che al Consumer Electronic Show, la
grande fiera tecnologica che si è da poco tenuta a Las Vegas, stavolta c’erano
sedici produttori di droni, il quadruplo dell’anno scorso. La rassegna stampa
sul tema cresce esponenzialmente. C’è il drone-edilizio della giapponese
Komatsu in grado di fare rilievi sui terreni dove posare le fondamenta di un
palazzo. Alla vecchia maniera servivano due persone per una settimana, mentre
adesso un aeroplanino fa tutto per conto suo in una, due ore al massimo. C’è il
drone-biologo della PrecisionHawk che prende campioni d’acqua nei fiumi e li
analizza in cerca di agenti patogeni.
C’è il drone-umanitario della Matternet che consegna vaccini nei più remoti
villaggi africani. Il drone-giornalista che, per conto della Cnn, fa scenografiche riprese dall’alto.
Lo SkySeer drone-poliziotto che a Los Angeles aiuta gli agenti a rintracciare i
dispersi. Ma anche il drone-spacciatore che si è schiantato nel parcheggio di
un supermercato a San Ysidro, a pochi chilometri dal confine messicano, con il
suo carico di tre chili di metanfetamina destinati al mercato americano. Tutto
questo solo per dare un assaggio molto parziale di quanto e come se ne è parlato
solo nell’ultimo mese. Lasciando da parte per il momento l’uso militare.
Torniamo quindi a Reno,
città-laboratorio di un imminente futuro globale. Dalla quale trarre un paio di
lezioni di ordine generale su come gestire brillantemente il presente in tempo
di crisi. «Noi non siamo Las Vegas» esordisce il colonnello Kazmierski, che mi
ha convocato alle 7.30 («A che ora mi sveglio? In genere alle 5.36») per
portarmi a vedere un aeroporto candidato ai test, «la crisi e la concorrenza
dei casinò nelle riserve indiane ha ridotto l’industria del gambling all’8 per cento del nostro Pil. Dovevamo inventarci
dell’altro». E così come un manager che ha interiorizzato l’arte della guerra
di Sun Tzu, ha trasformato la debolezza (una zona desertica) in una forza (un
grande spazio accogliente). Prima sono arrivati i data center, gli enormi capannoni industriali che ospitano le
migliaia di computer che fanno funzionare Amazon, Apple e altre superpotenze
internettiane. Poi Tesla, la Mercedes delle auto elettriche, ha annunciato che
aprirà qui la più grande fabbrica al mondo di batterie al litio. E poi,
ovviamente, i droni. «Vede la curva della disoccupazione?» dice indicando il
miracolo che le slide sanciscono. In
tre anni sono passati dal 14,2 al 6,4 per cento. E Obama non l’ha ancora
reclutata? «No, ma ho ricevuto qualche altra chiamata» concede, rilassando per
un attimo la mandibola d’acciaio. Non è successo per caso. «Abbiamo lavorato
molto con le agenzie che scelgono i siti industriali» racconta. Hanno spiegato
che si trovano a dieci chilometri dalla California, a quattro ore d’auto dalla Silicon Valley, con la
differenza che qui non ci sono praticamente tasse e un ingegnere costa circa la
metà che nella Bay Area.
Ed è tutto immensamente più facile.
Se c’è uno che lo può
testimoniare è Matt Sweeny. Ventiseienne australiano, ha studiato filosofia
prima di andare a imparare il cinese a Pechino. Lì, davanti alla frustrazione
di non poter avere una pizza decente nel dormitorio dove alloggiava, gli è
venuta l’idea che un drone avrebbe risolto il problema. Segue studio
disperatissimo su manuali cartacei e tutorial di internet che sfocia
nell’assemblaggio da autodidatta dei primi velivoli. Poi, quando fonda Flirtey
e annuncia due mesi prima di Amazon che è in grado di consegnare per via aerea
merci a domicilio, si trasferisce nella Silicon Valley in cerca di
finanziatori. Però lì è uno dei tanti. Così prova a Reno e scopre un altro
mondo: l’università gli mette a disposizione laboratori (in cambio della
promessa di assumere poi studenti locali), il sindaco gli offre affitti
scontati (con l’acquolina in bocca per l’inevitabile indotto) e tutti si mostrano
stupefacentemente collaborativi. […] Resta. «Sono reduce da 22 incontri con venture capitalists californiani negli ultimi nove giorni»
dice eccitato, mentre nella caffetteria dell’università tira fuori da una
custodia un esacottero, un drone con sei rotori, che può trasportare per 16 chilometri un peso
da due chili e mezzo. «Se un motore di questi sei si guasta non ce ne accorgiamo
neanche. Se il gps che lo fa volare in automatico va fuori uso ci sono i
comandi manuali. Se una batteria va in tilt c’è quella di scorta» elenca fiero.
La parola chiave è ridondanza: due (o
più) di tutto, contro ogni imprevisto. Ma dove li testate senza il permesso
della Faa? «Intanto al chiuso. Nei mesi scorsi in Gran Bretagna, dove i
regolamenti sono più elastici. E a breve cominceremo servizi commerciali nella logistica, nei fast food
e nel commercio elettronico in Nuova Zelanda, dove la legislazione è più
avanzata». Quanto al futuro, Sweeny non ha dubbi: «Non solo saranno il metodo
più rapido di consegna, ma anche il più economico. Giusto il costo di
manutenzione e ricarica delle batterie».
Piccola pausa esplicativa. Quanto
alla legge, oggi negli Stati Uniti i privati possono far volare piccoli droni,
non a caso uno dei più concupiti
regali tecnologici dell’ultimo Natale. Devono solo stare sotto i 120 metri d’altitudine, a
distanza di cinque miglia dagli aeroporti e sempre a vista dell’operatore. Se uno
invece vuole usarli a fini commerciali, per fare foto, ricognizioni o altro,
non potrebbe farlo – ma le cose vanno diversamente – se non dietro specifica,
complessa e temporanea autorizzazione della Faa. In attesa del regolamento che
doveva essere pronto nel 2012 e finalmente è dato in arrivo, salvo imprevisti.
Quanto alla tassonomia,
i droni non potrebbero essere più diversi. Si va dal popolarissimo e Made in
China Phantom a quattro rotori, tre chili di plastica e circuiti in vendita a
partire da 600 dollari su Amazon, come quello che ha provocato un catastrofico
danno d’immagine alla categoria schiantandosi nel giardino della Casa Bianca, ai 500 mila
dollari di un bestione anfibio della Drone America, altra azienda con sede qui,
che all’indomani dell’uragano Katrina
ha consegnato 16 provvidenziali scialuppe agli alluvionati. Per non dire dei
famigerati Reaper, lunghi 11
metri con apertura alare di 20, che stanno salassando il bilancio
del Pentagono a colpi di 10 milioni di dollari a esemplare.
Ryan McMaster fa del suo meglio
per non lasciarsi deprimere dalla vacatio legis. Me lo
presenta Shyla Pheasant, ex reginetta del rodeo e oggi entusiasta («Reno cresce
a vista d’occhio e il meglio ha da venire!») dipendente dell’Autorità per lo
sviluppo economico diretta da Kazmierski. Ingegnere trentenne, i droni se li
costruisce da solo con tubi di fibra di carbonio, chip comprati sul web,
pannelli di controllo tedeschi e telecamere giapponesi. E li usa, con apparente
soddisfazione anche economica (glissando sulle autorizzazioni), per fare ogni genere di ripresa
aerea: «Per chi vuole girare film, video pubblicitari ma anche ricognizioni per
riparare un tetto o una linea elettrica». Non vola mai sopra i centri abitati,
giura, e anche durante la prova che ci dà in un piccolo parco cittadino tiene a
distanza i bambini che subito accorrono («Non tocco più alcol da quando li
piloto»). A pochi chilometri di distanza, nella zona preindustriale, c’è la
sede di Drone America. Mike Richards, un inglese cinquantenne, è nel settore da
una dozzina d’anni e lamenta una certa improvvisazione: «Ormai chiunque sappia
fare lo spelling di
Uav ha cominciato a farli». Loro lavorano con gli sceriffi, con grossi gruppi
umanitari nei Paesi del Terzo mondo, anche con la Difesa. Ma la loro expertise è stata accumulata in passato, quando
nell’indifferenza generale i droni si collaudavano all’aria aperta. Quanto all’attendismo della Faa,
capisce, ma fino a un certo punto: «L’incolumità delle persone deve essere prioritaria. Ma se stiamo
troppo tempo bloccati questo Paese potrebbe perdere una straordinaria
opportunità economica». Come dimostra il caso di Flirtey che, non volendo
bruciare il proprio vantaggio tecnologico, mantiene la sede qui ma sposta i
collaudi in Oceania.
«È assurdo» commenta Mike Dikun,
il responsabile dell’aeroporto privato di Stead, a pochi chilometri dal centro.
«La nomina a sito di prova significava che, in strutture sicure come la nostra,
si facevano i collaudi per scrivere regole su come i droni avrebbero potuto
volare senza mettere in pericolo né l’aviazione civile né le persone a terra. E
invece…». Mi mostra la rampa per i Chessna con cui qualche buona decina di
residenti si spostano da uno Stato all’altro. E poi lo spazio enorme, a ridosso
di colline che proteggono dai venti, riservato ai droni. E inutilizzato. Si
accalora: «Tra un Phantom, più leggero di un’oca, e un Predator, c’è una
differenza abissale e non ha senso trattarli nello stesso modo». Una cosa è poi
la campagna, tutt’altra la città. «La nostra è una zona scarsissimamente
abitata, desertica. Non a caso abbiamo ospitato così tante basi aeree e, oggi,
anche i test dell’auto senza pilota di Google. I rischi per le persone sono
bassissimi. Diverso invece fare consegne nei cieli congestionati delle città». Ovvero l’annuncio
Amazon di un anno fa, giudicato da molti un eccellente colpo di pubbliche
relazioni. Troppi ostacoli, troppe variabili da tenere di conto. Solo Sweeny
giura di crederci: «Saremo i primi a farle. Amazon è agguerrita, ma i suoi
concorrenti non si rivolgeranno mai a loro per le consegne. E qui entra in
scena un fornitore indipendente come noi».
Nessun dettaglio è stato
tralasciato. Mark Sharp, dopo aver pilotato per tre anni Predator in Iraq e
Afghanistan, si è riciclato come insegnante. Insegna alla prima classe di
universitari del Truckee Meadows Community College quel che serve sapere sui
droni. Dice anche che «non occorre alcuna esperienza» per iscriversi al corso e
che, dalle turbine ai flight controller,
spiega da zero tutto lui. È l’America, bellezza! Dove un laureato in filologia romanza va senza
scomporsi a lavorare per Goldman Sachs, alla faccia della propedeuticità. Lo stesso
popolo, distante anni luce da come funzioniamo noi, che questa verginità
programmatica rende così ben disposto verso ogni novità. La medesima attitudine
nihil impossibile che fa dire all’ex colonnello dei marines
Warren Rapp, oggi insediato al Nevada Advanced Autonomous Systems Innovation
Center, di aver già trovato i soldi per far recintare da ogni lato, con una
specie di super rete d’acciaio, l’equivalente di una campo da football dove i
droni potranno finalmente essere collaudati all’aperto, nelle more delle decisioni
federali.
Per una volta però anche i future friendly americani hanno dei
dubbi. Solo il 21 per cento, constata un sondaggio commissionato
dall’Associated Press, è favorevole ai droni commerciali. Ci sono le
preoccupazioni della privacy, per quest’occhio di Medusa telematico sempre potenzialmente spalancato
sulle vite degli altri. Ma pesa anche la reputazione bellica dei fratelli cattivi di queste
macchine. Quelli che, con paradosso
non raro, sotto il repubblicano e guerrafondaio Bush avevano colpito 49 volte
(2004-2008) e con il mite e democratico Obama 409 solo in Pakistan (2009-2014).
La loro presunta chirurgicità
si è infranta davanti all’evidenza dei bollettini di guerra che scontano una kill zone di 15 metri dei missili
Hellfire sganciati dai Predator. Nessuno, detto altrimenti, in quel raggio
sopravvive. La prima stagione della serie tv Homeland si snodava tutta intorno agli effetti a cascata di un
bombardamento in cui muoiono civili innocenti. Il filmone Interstellar inizia con un lungo e struggente inseguimento di un
drone che si è perduto. L’opinione pubblica sembra dire, parafrasando Laocoonte
quando mette in guardia dal cavallo di Troia, «temo i droni anche quando
portano doni». Negli ultimi sei mesi dell’anno scorso sono stati denunciati
venticinque casi di quasi collisione
tra piccoli droni a aerei in atterraggio o decollo. Uno è successo al LaGuardia
di New York quando il Republic Airlines Flight 6230 è stato «quasi colpito» da
un velivolo amatoriale che volava oltre mille piedi, ovvero dieci volte
l’altezza consentita. Molto più banalmente a dicembre, in un ristorante della
catena Tgif a Brooklyn, un’elica di un drone ha tagliato un pezzo di naso a un
fotografo che doveva immortalarlo. Ultimo viene il doppio disastro della Casa
Bianca; inteso come conseguenza dell’imperizia alcolica di un pilota amatoriale
e come colossale fiasco del sistema di protezione del presidente. In entrambi i
casi, pessima pubblicità. Il New York
Times ha affidato a una delle sue firme tecnologiche il compito di
scagionarli. Titolo: «Diamo all’industria dei droni lo spazio per innovare».
Tra gli argomenti un paragone con internet, nata per fini militari e poi
diventata la formidabile piattaforma multiuso che conosciamo. Anche i droni,
sosteneva un intervistato, potrebbero seguire la stessa traiettoria e stupirci
con applicazioni che oggi, semplicemente, non sappiamo immaginare. Aprite i
cieli, era il senso, e i robot volanti ci sorprenderanno. È il mantra che si ripetono a Reno
ogni giorno. Quando il semaforo aereo diventerà verde, saranno i primi a
scattare. E, davanti al dispiegarsi di questo futuro possibile, le slot machines
saranno consegnate alla storia come modernariato meccanico, fosforescente, tendente al kitsch.
Pubblicato su il
Venerdì di Repubblica il 20
febbraio 2015
Spiegazione
dei termini evidenziati in verde:
Reno = città del
Nevada (uno dei 50 stati che formano, assieme al Distretto di Colombia, gli
Stati Uniti d’America), rivale della più celebre Las Vegas che sorge a pochi
chilometri di distanza
Lato b = una
volta i dischi venivano stampati su dei supporti in vinile a due facciate, il lato a e il lato b; i dischi a 45 giri contenevano solitamente 2 sole canzoni,
di cui quella che si supponeva di maggior successo sul lato a, mentre quella “secondaria” sul lato b. Nell’articolo lato b
significa appunto “secondario, di minore importanza (vera o presunta)”
Detroit = città
del Michigan (un altro degli stati degli USA) nota per essere la capitale
dell’industria automobilistica statunitense
Guerra del Golfo
= guerra di una coalizione di nazioni guidate dagli USA contro l’Iraq; in
realtà ce ne sono state due, una tra il 1990 e il 1991, un’altra tra il 2003 e
il 2011
Gambling =
precisamente è il gioco d’azzardo, praticato illegalmente, ma qui ci si
riferisce ai giochi legali che si praticano nei casinò per i quali è famoso il
Nevada
Silicon Valley =
è la parte meridionale dell’area metropolitana attorno a San Francisco (in
California, un altro stato degli USA), famosa per la forte presenza di
industrie di computer e affini
Bay Area = è la
baia su cui sorge San Francisco (Questo pezzo dell’articolo ti fa capire come
negli USA le leggi e gli stipendi e le regole in generale siano diversi da
stato a stato)
Venture capitalists
= investitori di capitale (cioè di denaro proprio) in attività rischiose ma
promettenti per il futuro
Casa Bianca = la
residenza a Washington del Presidente degli Stati Uniti
Katrina = è
l’uragano che nel 2005 ha
devastato le coste del Golfo del Messico, provocando enorme distruzione e la
morte di più di 1.800 persone, in gran parte nella città di New Orleans
Vacatio legis =
espressione latina che significa mancanza di una legge in un determinato
settore
Difesa = il
ministero della difesa che si occupa delle forze armate e delle guerre e che
negli USA viene anche chiamato Pentagono, poiché ha sede in un edificio di
forma pentagonale
Filologia romanza
= è la scienza che studia le lingue neolatine e i testi scritti in tali lingue,
soprattutto nei primi secoli in cui sono state usate
Nihil impossibile
= espressione latina che significa “niente è impossibile (per chi è mosso da
una forte volontà)”
Medusa = personaggio
della mitologia greca, che ha la capacità di pietrificare chiunque incroci il
suo sguardo
Chirurgicità =
neologismo che indica la capacità di fare qualcosa con estrema precisione,
appunto come un chirurgo che quando opera, taglia (di solito!) nel punto giusto
Mantra = nelle
religioni dell’India (tra cui Induismo e Buddismo) è un’espressione sacra, una
preghiera, una formula magica tipica della meditazione orientale; banalmente –
come in questo articolo – il termine viene usato per indicare qualcosa che
qualcuno si augura ripetendoselo in continuazione (una specie di scongiuro, in
pratica)